Recensione: Death Of A Dead Day [Reissue]

Di Stefano Burini - 4 Febbraio 2017 - 16:54
Death Of A Dead Day [Reissue]
Band: SikTh
Etichetta:
Genere: Djent 
Anno: 2016
Nazione:
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83

Quando i Meshuggah erano già una band d’avanguardia per quanto ancora piuttosto lontani dall’attuale status di leader della scena e ben prima dell’esplosione di realtà divenute poi cardine del (sotto)genere quali TesseracT, Periphery, The Contortionist e Animals As Leaders, c’erano gruppi che facevano, per così dire, djent before djent. Tra di essi – pionieri, precursori o semplicemente esploratori di buona parte degli sviluppi che questa nicchia a metà strada tra progressive metal, math/metalcore, death e groove metal ha saputo proporre negli anni – a fianco degli olandesi Textures è assolutamente necessario citare i SikTh.

Il combo britannico, ha prima rotto il ghiaccio con il fondamentale “The Trees Are Dead & Dried Out Wait For Something Wild” (2003) per poi proseguire il discorso con l’altrettanto notevole “Death Of A Dead Day” (2006) prima di sparire nel quasi nulla (il chitarrista Graham “Pin” Pinney ha nel frattempo trovato tempo e modo di dar vita anche agli interessantissimi Aliases, NdR) per la bruttezza di quasi dieci anni fino al 2015, anno del ritorno a sorpresa con il controverso EP “Opacities”.

Come potrete intuire leggendo le date di uscita dei (finora) unici due studio album dei SikTh – qualora non abbiate già vissuto la vicenda “in diretta” – l’importanza e la portata immaginifica in termini di idee e contenuti di quei lavori fu davvero rivoluzionaria. 

Il punto di partenza da cui “Death Of A Dead Day” trae la propria linfa vitale, a livello di sonorità rimane il gustoso mix tra distorsioni figlie dei citati Meshuggah, arzigogoli ritmici di matrice The Dillinger Escape Plan e soluzioni vocali talora debitrici tanto del Mike Patton Mr. Bungle – era, quanto dei System Of A Down, con l’aggiunta di contenute dosi di melodia (che diventeranno un leit-motiv all’interno della corrente, successivamente denominata djent). 

Laddove “The Trees Are Dead…” metteva nero su azzurro una follia psicotica e fuori controllo non priva di spunti amaramente ironici, “Death Of A Dead Day” – pur non difettando in quanto a frenesia e capacità di lasciare l’ascoltatore a bocca aperta – pare cercare di imprimere un filo d’ordine in più al caos. “Bland Street Bloom” parte subito lancia in resta all’insegna del djent e del mathcore più incazzoso, seguita a ruota dalla furiosa “Floggin The Horses”, magistralmente spezzata verso la tre quarti da rallentamenti atmosferici splendidamente sottolineati dalle voci di Mikee Goodman e Dan Weller. Non da meno in ogni caso la vivacissima “Way Beyond The Fond Old River”, scandita da ricami chitarristici non lontani da quanto successivamente proposto dai Protest The Hero e dalla prima vera – efficacissima – melodia in voce pulita di tutto l’album.

In “Summer Rain”, più che in altri pezzi, l’influenza di Serj Tankian e dei suoi SOAD appare decisamente evidente per quanto ben incastonata in un mosaico sonoro cangiante e in continuo divenire, ma è con la successiva “In This Light” che i SikTh dimostrano la più che mai incredibile ampiezza del loro spettro espressivo, andando a lambire territori esplorati in quegli anni anche dai Mastodon (epoca “Blood Mountain”), a metà strada tra sludge/doom e progressive rock.

La non trascendentale “Sanguine Seas Of Bigotry” e la traccia parlata “Mermaid Slur” costituiscono  poi una sorta di intermezzo verso il gran finale, laddove brani come la nervosa “When Moment’s Gone”, l’ipermelodica “Where Do We Fall?” e le mirabili “Another Sinking Ship” e “As The Eart Spins Around” danno un’ulteriore scossa agli stilemi sonori della band medesima, dimostrando di poterne ampliare a dismisura le possibilità in tutte le direzioni più avanti percorse da epigoni più o meno nobili.

L’album venne pubblicato nel giugno 2006 via Bieler Bros. Records e pur costituendo un valido sequel per il seminale “The Trees Are Dead..”, finì per sancire la (momentanea) fine dei SikTh, inattivi da allora fino all’inatteso come back del 2015, il quale portò in dote il citato EP “Opacities”. La presente ristampa è stata curata da Peaceville Records e comprende alcune interessanti – per quanto non irrinunciabili – versioni demo dei brani “Flogging The Horses”, “Part Of The Friction” e “Where Do We Fail”: un buon viatico per ri-scoprire una delle poche band davvero in diritto di fregiarsi del titolo di avanguardia, in attesa del ritorno sulla lunga distanza, previsto per il 2017.

Stefano Burini

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