Recensione: Deformation of Humanity

Di Daniele D'Adamo - 20 Gennaio 2019 - 10:50
Deformation of Humanity
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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76

Tornano in pista, a distanza di ben ventidue anni, i deathster olandesi Phlebotomized. Il nuovo lavoro, “Deformation of Humanity”, segue “Skycontact” (1997) nel formare una triade con il debut-album “Immense Intense Suspense” (1994).

Questa breve premessa non è casuale, in quando serve per inquadrare correttamente lo stile proposto dalla formazione di Rozenburg. Nella seconda metà degli anni ’90, infatti, il death melodico, come quello dei Phlebotomized, cioè, ha subito l’influsso del gothic metal in maniera pesante. Perché, allora, quest’ultimo genere faceva della potenza e dell’aggressività (Paradise Lost, Orphanage, Heavenwood) uno dei suoi elementi di forza. Tant’è che, alla fine, il confine fra le due tipologie musicali era davvero labile e facile da trapassare. 

Dei sapori e degli odori di quell’epoca, i Phlebotomized se ne fanno ancora carico, anche se in misura minore, proponendo così uno stile vintage, ricco di avventura e di personalità; in ogni caso rivisitato e calibrato per le attuali esigenze del mercato discografico. Nessuna operazione nostalgia, insomma, ma un disco che propone sonorità moderne, per nulla incrostate dalle nebbie del tempo. Avendo mantenuto intatte le proprie radici e avendole pulite e messe a lucido per rientrare nell’ambiente senza ragnatele, alla fine i Nostri sono riusciti a comporre un full-length interessante. Capace, questo sì, di lasciare intravedere qualcosa di com’erano, dal punto di vista del metal estremo, quegli anni che fanno ormai parte della storia scritta. 

A conferma di quanto sopra evidenziato, “Deformation of Humanity” ha un suono pieno, possente, erculeo. Death metal. Ma, contemporaneamente, è ricco di orecchiabili armonizzazioni grazie all’eccellente lavoro svolto dalle chitarre di Tom Palms e Dennis Bolderman, massicce generatrici di riff poderosi ma, anche, di morbidi e vellutati orpelli a sostegno dei leitmotiv delle varie song (‘Chambre Ardente’). Accoppiandosi con naturalezza ed efficacia al roco growling di Ben de Graaff, interprete di linee vocali non particolarmente complesse ma perfette per la bisogna, per un sound che sa sia di antico, sia di moderno. Accanto a una sezione ritmica precisa e per nulla intimidita dall’avventurarsi nei territori dominati dai blast-beats (‘Eyes on the Prize’), emerge con forza l’opera Rob op ‘t Veld, tastierista onnipresente che, spesso e volentieri, alza il tiro con stupende, imperiose orchestrazioni tese ad arricchire un sound che, così, diventa spesso, massiccio e robusto.

Azzeccato lo stile, azzeccate – anche se un po’ meno – le song. Comunque sia, la capacità compositiva del combo del South Holland non è da sottovalutare. Le canzoni sono esse stesse ricche di particolari così come lo stile che le dipinge. Si passa da brutali accelerazioni a deliziose parti rallentate, ricche di melodia, per uno svolgimento che non induce mai alla noia (il violino e il pianoforte di ‘Descend to Deviance’…), malgrado alcuni brani raggiungano una ragguardevole durata (‘Deformation of Humanity’). E sono proprio questi i frangenti in cui si dà libero sfogo ai sentimenti che, come da definizione, virano costantemente verso la tristezza e la malinconia. Non si arriva alla depressione, ma il mood del platter mostra emozioni soffuse, melanconiche, indicative di un ensemble capace di mettere, su rigo, e bene, i moti dell’anima. 

I Phlebotomized sono a proprio agio anche nelle canzoni più violente, come la già citata ‘Eyes on the Prize’, vera e propria mazzata sui denti contornata da un funereo suono di organo da chiesa. Non poteva mancare pioggia, narrazione sofferta e cori  (‘Desideratum’), che marcano definitivamente l’umore di un disco votato alla rappresentazione degli strati più intimi dell’anima; ove albergano gli impulsi più veri dell’Uomo, singulti di mestizia per una vita la cui essenza è soltanto bagnata, a volte, da qualche goccia di gioia. Una consapevolezza che Ben de Graaff e compagni devono avere ben chiara e tersa, nelle loro menti, come mostra lo sconsolante incipit di ‘My Dear,…’

A “Deformation of Humanity”, per esplodere, mancano una/due brani in grado di renderlo memorabili. Pur essendo, come detto, di buon livello, alle tracce non c’è, in toto, il quid necessario per far sì che l’opera decolli sul serio e voli in alto. Unica eccezione, la strumentale “Until the End-Reprise”, assolutamente stupenda nella sua autoritaria espressione di armonia e melodia di eccezionale manifattura. La track è davvero fuori dalle righe e dimostra un talento, da parte dei Phlebotomized, forse ancora inespresso in tutta la sua potenzialità.

Daniele “dani66” D’Adamo

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