Recensione: Do Or Die

Di Roberto Castellucci - 27 Ottobre 2021 - 5:30

Prima dell’arrivo di Internet lo sviluppo di gusti musicali ‘alternativi’ richiedeva parecchi sacrifici. Questo valeva soprattutto per chi, come il sottoscritto, si è trovato a crescere in una cittadina di provincia dalle ridotte dimensioni. Era già una fortuna che nella mia città ci fossero ben due negozi di dischi…assolutamente non specializzati in Metal e simili. Immaginate il problema di ordinare album appena usciti a negozianti convinti che il Metal iniziasse con gli Iron Maiden e finisse coi Metallica: ‘Buongiorno. Vorrei ordinare “The More Things Change”, l’ultimo CD dei Machine Head’. ‘Mai sentito. Me lo scrivi su un foglietto?’. La questione si potrebbe riassumere in due parole: difficile reperibilità. Il termine ‘reperibilità’ assume però due sfumature diverse: la prima, più concreta, fa riferimento all’oggettiva difficoltà nel trovare i dischi e alla necessità di percorrere decine di chilometri per trovare negozi ‘adatti’. La seconda sfumatura è più sottile e riguarda le probabilità di incontrare, in un bacino d’utenza giocoforza limitato, persone con gusti musicali affini ai propri. Essendo praticamente l’unico metallaro old school in tutto il mio vecchio liceo, ho dovuto socializzare con persone che condividevano solo in parte, o in nessuna parte, il mio orecchio musicale. Parlavo di musica con skaters che si tatuavano lo stemma dei Sick Of It All sui polpacci, capelloni tenebrosi che scrivevano sul loro diario scolastico i testi di Mayhem e Satyricon, ragazzi vestiti con abiti larghissimi che ascoltavano esclusivamente Korn e Deftones…insomma, all’epoca giudicavo questa situazione a dir poco limitante. Col passare del tempo, invece, ho iniziato a percepire positivamente questa varietà di stimoli: la mentalità aperta ‘coltivata’ in quegli anni mi ha liberato da fastidiosi paraorecchie durante la mia giovinezza…e oggi mi inguaia quando si tratta di scegliere un disco da recensire. Thrash? Death? Heavy? Hardcore? Tanto vale farsi guidare dall’istinto e ancora di più dalla copertina dei dischi: mi perdoneranno gli Aerosmith, che nel 1987 consigliavano di ‘non giudicare un libro dalla sua copertina’ nel famosissimo brano “Dude (Looks Like A Lady)”. Quando mi sono trovato di fronte alla copertina di “Do Or Die”, terzo full-length dei tedeschi SpitFire, l’artwork ha subito attirato la mia attenzione. Sarà il monicker del gruppo, scritto in quei caratteri simil-gotici che fanno tanto Hardcore? Oppure è il titolo del disco che cita, volontariamente o meno, una parte del testo del ritornello di “Aces High” degli Iron Maiden? Sicuramente mi ha colpito il volto dell’aviere mezzo uomo e mezzo teschio, che con la sua somiglianza a Eddie the Head nei panni di un aviatore ricorda proprio l’illustrazione del singolo di “Aces High”. Come se non bastasse, mi sono imbattuto nel videoclip della seconda canzone di “Do Or Die”, intitolata “Like a Lady”: a questo punto mi sono accorto di non avere più scampo, senza contare il fatto che mi ritrovo, dopo poche righe, a ripetere parte del titolo della succitata canzone degli Aerosmith.

Introdotta da un riff di chitarra ruffiano come da tempo non se ne sentiva, “Like a Lady” è un trascinante mid-tempo capace di trasportare la fantasia di un incauto recensore nel bel mezzo di un raduno motociclistico; gli SpitFire, impegnati a suonare sul palco, accompagnano spettacoli di burlesque e concorsi per custom bikes senza riuscire a coprire il tintinnio dei boccali di birra che si scontrano…almeno fino all’arrivo di mia moglie che, dopo essersi materializzata al mio fianco sulle note della title trackDo Or Die”, mi riporta al mondo reale esordendo con un giudizio tanto semplice quanto perentorio: ‘Finalmente qualcuno che canta in modo comprensibile! Sembra il cantante dei Metallica che suona con gli Offspring’. Touchè. Un attimo, prima che i Lettori puri e duri perdano i sensi: i Metallica citati sono quelli del periodo di “Load”, e per la precisione non quelli di “The Memory Remains” ma quelli di “Ain’t My Bitch”…la voce del cantante degli SpitFire qua e là effettivamente richiama il vocione di James Hetfield, ma per quanto riguarda l’aspetto ‘punk rock californiano’ preferisco prima di tutto fare ordine. Iniziamo con un po’ di storia: gli SpitFire protagonisti di questa recensione nascono a Monaco in Germania nel 2011, senza aver nulla a che fare con i veronesi heavy/speed metallers Spitfire né con i greci…Spitfire, alfieri di un Heavy piuttosto canonico. Il nostro terzetto tedesco, a differenza dei vari omonimi, si dedica fin dalle primissime uscite discografiche ad un Rock’n’Roll molto vigoroso, influenzato tanto dal Punk quanto dall’Hard Rock, talmente ben accolto in patria da portarli già nel 2013 ad esibirsi in orario serale al Wacken Open Air. I primi due album della band, “Devil’s Dance” del 2013 e “Welcome To Bone City” del 2015, hanno fatto addirittura guadagnare agli SpitFire un paio di posizioni di rilievo nelle classifiche tedesche dei migliori 100 album; non c’è ragione perché anche il nuovo “Do Or Die” non riesca nella medesima impresa.

L’ascolto del secondo album “Welcome To Bone City” preannuncia tutte le caratteristiche del sound prodotto dagli SpitFire nel 2021: incontriamo canzoni orecchiabili, energiche e ricche di ritmi, cori e riff costantemente in bilico tra il Rock’n’Roll e il Punk californiano dei primi anni ’90, il tutto senza perdere di vista qualche suggestione Heavy e molto raramente Southern Rock. Ciò che rende particolarmente gradevoli gli SpitFire del nuovo “Do Or Die” è però il desiderio di trasmettere con maggior frequenza sonorità più dure e votate all’Hard and Heavy: i tre rockers teutonici, per dirla sempre in modo tecnicamente impeccabile, talvolta sembrano ‘picchiare’ un po’ di più rispetto a quanto fatto nei precedenti lavori. Ne sono esempio canzoni come la potente “80s Rockstar” e “Can You Feel The Fire”: quest’ultimo brano, in realtà, risulta essere leggermente meno ‘scoppiettante’ rispetto alle altre tracce; non a caso è stato inserito in undicesima posizione, subito prima della canzone più southern-oriented di tutto il disco, “Another Mile”, quasi a voler concedere qualche minuto di riposo prima dell’ultima galoppata del disco. “Too Much Is Never Enough”, oltre a chiudere con vigore un disco indiscutibilmente divertente, mostra con chiarezza il desiderio degli SpitFire di fare qualche passo in più verso il mondo dell’Hard and Heavy: la canzone infatti ospita alle chitarre niente meno che Frank Panè, chitarrista tedesco in forza dal 2015 presso gli storici Bonfire. Nonostante tutte le influenze percepibili durante l’ascolto di “Do Or Die”, l’impronta sonora della band è facile da descrivere: siamo di fronte ad un gustoso mix di generi musicali che, stando a quanto si può leggere in rete, gli SpitFire stessi hanno definito ‘Kickass Rock’n’Roll’; a prescindere dall’effettiva paternità di quest’affermazione, la definizione calza a pennello. Va detto inoltre che il gruppo, sia stilisticamente che esteticamente, spesso sembra scherzare con i luoghi comuni tipici dei generi da cui trae ispirazione, siano essi Punk, Hard Rock, Heavy o Southern, dimostrando così di divertirsi parecchio e, cosa da non trascurare, facendo anche divertire i fans. Tanto per fare un solo esempio, in modo da illustrare la volontà da parte degli SpitFire di non prendersi troppo sul serio, potrebbe essere sufficiente citare il cantante che, all’inizio della traccia “Die Like A Man”, ‘conta i quattro’ con rara originalità e grande delicatezza: ‘One/Two/Fuck/You’…che altro aggiungere?

Non crediate però che i Nostri parlino esclusivamente di donne, velocità e risse arricchendo il tutto con un’adeguata dose di parolacce: gli ultimi anni di pandemia, chiusure forzate e solitudini imposte hanno inciso segni profondi in tutta la nostra società, lasciando traccia del loro passaggio nei testi di canzoni apparentemente sbarazzine come “Writings On The Wall” o l’intensa power balladSacrifices”. A proposito di testi riflessivi e intimisti, non tutti riconosceranno a prima vista nella tracklist di “Do Or Die” il titolo di un brano degli statunitensi Tom Petty and the Heartbreakers, “Out In The Cold”. La canzone, originariamente presente nell’album “Into The Great Wide Open”, viene proposta con grande rispetto verso la matrice del 1991 ed eseguita con una tale vivacità da farla quasi sembrare un pezzo originale, andando così ad aggiungere un’ulteriore influenza al variegato stile degli SpitFire. In definitiva, se cercate un buon disco in grado di allietare i vostri lunghi viaggi in automobile e siete stanchi di far girare a ripetizione nell’autoradio Creedence Clearwater Revival e AC/DC, con “Do Or Die” avrete trovato un perfetto sostituto. Ci troviamo infatti di fronte a un prodotto gradevole, sufficientemente fracassone e ricco di brani catchy così immediati da ‘stamparsi nelle orecchie’ fin dal primo ascolto. Come tanti buoni album riesce contemporaneamente a intrattenere e talvolta a far riflettere i suoi ascoltatori, pur non essendo ai massimi livelli in quanto ad originalità; nonostante ciò il disco è sufficientemente vario e accattivante da non sentire il bisogno di distinguersi troppo dalla grande massa di prodotti simili, spesso molto meno efficaci, che affollano il mercato discografico di oggi e di ieri. L’album ha oltretutto il grande pregio di aver qualcosa da dire a molte categorie di appassionati, partendo dai metalheads più convinti fino ad arrivare alle mogli di certi recensori, che amano ogni tanto ascoltare Nickelback ed Offspring mentre i loro mariti continuano imperterriti a sfasciarsi i timpani con Thrash, Brutal Death e simili…almeno fino a quando non incontrano album spensierati come “Do Or Die”. Ogni riferimento a persone scriventi è puramente casuale, ovviamente…buon ascolto a tutti e buon divertimento in compagnia degli SpitFire!

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