Recensione: Droner

Di Simone Volponi - 26 Febbraio 2018 - 14:00
Droner
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2017
Nazione:
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60

Dopo tre anni spesi a suonare doom con gli Spiritus Mortis e i Lord Vicar, e dopo aver sperimentato con l’elettronica insieme ai Tahtiportti con il black metal negli Azrael Rising, Sami Albert “Witchfinder” Hynninen (Reverende Bizzarre) torna a proporci i suoi Opium Warlords.

Droner” è il quarto album del progetto, e ci porta dentro la visione musicale alienante e priva di compromessi di Hynninen. Tre lunghe ed estenuanti tracce di musica distorta, basata su riff lo-fi e una voce salmodiante ubriaca di sentori cosmici. È quasi blues nell’impostazione, ma dalla notevle sperimentazione grazie alla pozza drone che imbeve le note. Il riff minimale di ‘Year of 584 Days’ è esemplare nel descrivere l’essenza di “Droner”, pochi tocchi che riverberano e il canto che è più un racconto, distorto e opprimente quanto la sei corde. Si innesta anche un simil-solo, acustico e completamente stonato, adatto a spiegare la natura drogata della proposta e ad immergere la mente in un rito di contemplazione sfibrante. Gli interessi svariati di Hynninen, tra letteratura, razze tribali, riti antichi e un profondo amore per la natura confluiscono all’interno di questi lunghi viaggi spettrali.
I testi delle tre composizioni, infatti, sono strutturati intorno a fonti quali gli scritti del finlandese Jouko Turkka, un rituale del popolo africano Ndembu, e una lettera scritta dalla poetessa e occultista Marjorie Cameron.
Certo che la ripetizione infinita dello stesso riff e l’impianto scheletrico del tutto, come dimostra anche la seconda ‘Samael Lilith’ nell’interezza dei suoi oltre venti minuti, rende difficile stare dietro ai mantra apocalittici impostati dal finlandese. Il fascino di un certo richiamo a Nick Cave, rivisitato in chiave drone, si avverte nella voce sofferta che si prende tutto il tempo necessario per “leggere” le liriche, lasciando ampio spazio al senso di vuoto e risucchio su cui si basano i tocchi di chitarra. Ci si trova difronte al dualismo di una scelta, tra lasciarsi avvolgere impostando la mente sulla giusta frequenza, chiudendo gli occhi e immaginando città deserte e nuovi orizzonti cosmici, oppure gettare la spugna e rinunciare alla comprensione. È questione di poter e volere prendersi il tempo e lo spazio (non ha caso) necessario.
Particelle sonore intriganti se ne trovano spezzettando il minutaggio delle tre suite, ci sono sfumature che rischiano di sfuggire e restare inascoltate se non si accetta in toto il prezzo del viaggio.
Closure’ ha quasi un candore anni ‘60 con il sitar e una maggiore interpretazione di Witchfinder finalmente più intonato e vario all’interno di un’atmosfera bucolica, per poi riprendere il tono declamatorio e oscuro che pervade tutto “Droner”. Un vortice spaziale avvolge e stordisce verso il finale, dove la mano che pizzica le corde sembra impossessata da un replay ciclico e una dimensione di rumori distorti accoglie l’animo spossato di chi ha assistito in toto al viaggio.

Difficile, alieno, spettrale, tossico. “Droner” è questo, una incursione nel terreno più scarno e dal sapore post-atomico della materia rock. Quanto riuscito è davvero questione di coscienza personale, tanto risulta difficile sentenziare nel breve tempo di una recensione sulla creatività targata Opium Warlords.

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