Recensione: Eastern Frontiers In Flames

Di Tiziano Marasco - 17 Febbraio 2014 - 5:28
Eastern Frontiers In Flames
Band: Drudkh
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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55

Per una band prolifica quali i Drudkh, che dal 2003 ci hanno regalato ben undici fatiche di studio, due anni di inattività finiscono inevitabilmente per dare adito a sospetti inquietanti di scioglimento e crisi creativa. Per fugare parzialmente i dubbi il gruppo ucraino si presenta dunque oggi sul mercato con due nuove raccolte. La prima è uno split coi Winterfylleth, quattro simpatici gallesi che avevo già incontrato quella volta in cui ero andato a vedere gli Enslaved a Vienna.

Della seconda, Eastern Frontiers in Flames invece ci occupiamo in questa sede: si tratta anche in questo caso di una raccolta che mette assieme due brani provenenti dai primi demo degli ucraini, con in aggiunta una serie di cover di gruppi che poco hanno contribuito al black metal internazionale, ma molto devono aver rappresentato per i Drudkh ql momento di muovere i primi passi. Andiamo ad ogni modo con ordine.

Aprono le danze i due brani dei Drudkh: la strumentale, burzumesca, Fallen into oblivion è seguita dalla più irrequieta Ashes, a suo modo burzumesca. Seguono poi quattro cover di band che bene o male, la maggior parte di noi mai ha sentito nominare (ma le trovate sull’Encyclopedia Metallum). Si tratta infatti di gruppi cechi e polacchi e di canzoni in ceco e polacco. Ora, essendo di Kharkiv, non è dato stabilire con certezza assoluta se i Drudkh siano di etnia russa o ucraina, in ogni caso, se ucraini, l’ostacolo linguistico è pressoché nullo, per non parlar del fatto che il raglio animalesco rende indecifrabile i testi a qualsivoglia non-madrelingua.

Tam Gdzie Gasnie Dzien (dove si spegne il giorno) e Recidivus sono due cover dei Sacrilegium, band polacca anch’essa burzumosa, che ha dato alle stampe svariati demo e un full-length tra il 1990 e il 1999. Soprattutto la prima, al tempo doveva aver destato buone impressioni per l’ampio respiro delle chitarre. Purtuttavia, rimane il fatto che i Sacrilegium non hanno fatto la carriera dei Behemoth, e ciò deve essere dovuto alla mancanza di una certa personalità di fondo. Problema che li accomuna ai loro conterranei Hefestus (stessa sorte discografica), di cui qui è riproposta W Kranie Drzew (nella landa degli alberi), o ai cechi Unclean, di cui viene rivisitata Ten, Který se vyhýbá sv?tlu (colui che rifugge la luce).

Più interessante la cover dei Master’s Hammer, Indiánská píse? hr?zy (Canzone del terrore indiana, laddove indiano si riferisce all’America, dato che il ceco ha due aggettivi diversi per i pellerossa e per gli indù). Al di là di una tematica atipica, infatti, la song si distingue per quella caratteristica, estremamente ceca, di infilare nel black alcuni riffoni di chitarra meramente figli dell’hard rock ottantiano. Dunque in questa fase sentirete effettivamente qualcosa di nuovo, e non è un caso che i Master’s Hammer siano gli unici ad avere una discografia degna di questo nome – o quasi, dato che i vltavini hanno dato vita a 5 album in 20 anni.

Per quanto dispiaccia, la bociattura del gruppo di Kharkiv a riguardo di questo episodio pare inevitabile, per quanto non dipendente dalla qualità della musica proposta, comunque media. Per quanto possa essere encomiabile l’idea di riportare alla luce alcuni brani storici, siccome tributare onori all’underground black panslavo, questo è da un lato un disco di normalissimo black metal dilatato. Parimenti, è quantomai improbabile che l’ascolto di Eastern Frontiers in Flames possa aprire ai fan la visione di nuove ed interessanti realtà. Perché, eccezion fatta per i Master’s Hammer, come detto tutte le band qui coverizzate hanno avuto una vita discografica effimera. Si tratta di band che negli anni Novanta hanno messo in giro qualche demo e un LP a testa. Difficile che qualcuno li riediti, difficile che tali riedizioni escano dai paesi d’origine, difficile o impossibile che qualcuno reperisca le vecchie uscite dall’Italia, o da dovunque in generale.

L’operazione sembra davvero volta solo a rimpinguare le casse dei Drudkh, soprattutto in virtù del fatto che lo split coi Winterfylleth contiene tre canzoni presenti già in questa sede. E pure in virtù del fatto che la Season Of Mist sembra a sua volta in cerca di denaro facile, data la serratissima serie di ristampe che sta producendo (più di 15 lo scorso anno).

Quindi, a discapito dell’amore per Autumn Aurora e Microcosmos, no, non va. Malgrado i tumulti che stanno martoriando la terra del Dnester, dai Drudkh ci aspettiamo un album vero.

Tiziano Vlkodlak Marasco

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