Recensione: Eight Miles High

Di Filippo Benedetto - 19 Marzo 2005 - 0:00
Eight Miles High
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1969
Nazione:
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85

Ci sono dischi che, nonostante l’età avanzata e l’impolverirsi della memoria musicale, continuano a trasmettere emozioni e mantenere intatto il fascino della prima uscita. Non si tratta di casi frequenti, tutt’altro. Capita poi di imbattersi in albums poco conosciuti, ma che tuttavia hanno un valore inestimabile al di là del tempo ed è a quel punto che spunta la parola giusta per descrivere tali opere: oggetti di culto. Uno di questi è “Eight Miles High”, lavoro firmato dalla storica band hard rock progressive Golden Earring. L’importanza di questo lavoro, uscito nel lontano 1969, ha incidenza non solo per la band ma anche per il genere hard progressivo, o almeno per certi suoi aspetti. Per la band questo “Eight Miles High”, insomma,  ha segnato la definitiva svolta stilistica e di identità (fu a partire da questo disco che il combo si raccolse sotto il moniker Golden Earring anziché Golden Earrings).

Il disco parte alla grande con “Landing”, pezzo ricco di pathos grazie al susseguirsi di efficaci “crescendo”. Il punto forte del brano è la sinergia tra chitarre e sezione ritmica che asseconda con destrezza la progressione melodica della track. Passando alla traccia seguente, “Song of a devil’s servant”, ci troviamo alla prima vera perla del platter. Un sussurro velato di flauto ci introduce al tema fondamentale del brano. Come si può dedurre dal titolo del brano, la cupezza e la malinconia regnano supreme, vivamente espresse da un tappeto acustico di sottofondo e da un lavoro sulle ritmiche mai invasivo. Quando irrompono le chitarre elettriche supportate dall’hammond l’atmosfera si tinge di toni maestosi e la struttura della song assume connotati più hard rock oriented. In sostanza un pezzo ricco di suggestioni che non possono far altro che catturare l’attenzione dell’ascoltatore senza mai annoiare. Con “One hudge road” il combo olandese sembra evidenziare maggiormente il profilo “hard” del proprio songwriting, grazie ad un riffing diretto e graffiante ben supportato da un drumming coerente con l’impostazione melodica  del brano. “Everyday’s torture” ci tuffa in tutt’altra atmosfera, ricca di cupezza introspettiva e sembra proprio che l’incedere della song lasci immaginare per davvero la sofferenza per dolorose e continue “torture”. Di sicuro l’anima dark progressiva del combo esce platealmente allo scoperto in questo episodio. Giunti alla title track, e quindi verso la conclusione del disco, ritroviamo un’architettura melodica più ricca di suggestioni “positive”, un lavoro accurato per quanto riguarda gli arrangiamenti e una corposità di sound (devo dire di tutti gli strumenti, compresa la batteria che si lancia a tre quarti di song in un particolarissimo assolo) molto convincente. La song è molto lunga (ben 19 minuti!) sviluppando il suo punto di forza lungo una copiosa serie di solos chitarristici ora più inclini al lirismo, ora più graffianti nell’impostazione. E’ proprio in questi frangenti – è il caso di dirlo – che la band dimostra il meglio di sé.

Concludendo possiamo dire che è a partire da questo bello e particolare album che cominciamo ad intravedere una fisionomia artistica più chiara e netta dei Golden Earring. E, aggiungo ancora, i buoni frutti che darà questo disco li rivedremo, meglio approfonditi e accurati, in lavori successivi come Moontan e Switch. Se avete amato questi ultimi due platters, non potrete far altro che “innamorarvi” anche di “Eight Miles High”. 

Tracklist:

1. Landing
2. Song Of A Devil’s Servant
3. One Huge Road
4. Everyday’s Torture
5. Eight Miles High

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