Recensione: Embrace the Unknown

Di Carlo Passa - 19 Febbraio 2022 - 10:28
Embrace the Unknown
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Heavy 
Anno: 2022
Nazione:
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90

Rileggo la mia recensione del primo album degli Spirits of Fire (2018) e ci ritrovo lo stesso entusiasmo che mi regala questo nuovo Embrace the Unknown. Come allora, e forse più di allora, non sono un amante dei supergruppi, spesso improvvisati accostamenti di nomi più o meno famosi che non dicono proprio niente di sostanzioso. E come allora, eccomi a trovare negli Spirits of Fire una bella eccezione.
Per chi non lo sapesse, la band americana è formata da quattro musicisti di assoluto rispetto metallico. Chris Caffery, chitarrista e compositore dei brani di Embrace the Unknown, ha militato (o, forse, dovrei scrivere “milita”?) nei Savatage, oltre che nella loro gemella gentile Trans-Siberian Orchestra. Steve DiGiorgio ha prestato il proprio basso a numerose band di grido, tra cui è sufficiente menzionare i Testament e i Death. Mark Zonder, geniale e fantasioso batterista, ha suonato nei Fates Warning e negli Warlord, il che non richiede di aggiungere alcuna ulteriore considerazione. Infine, il nostro Fabio Lione non sfigura in cotanta compagnia, potendo annoverare in curriculum l’aver dato voce alle musiche di Angra e, ovviamente, Rhapsody.
Sulla scia di quanto proposto quattro anni fa, Embrace the Unknown è un disco heavy metal, totalmente heavy metal. Insomma, se frequentate le pagine di questo sito, non potrete non adorare Embrace the Unknown: e se così non fosse, dovreste porvi delle domande sulla solidità stessa della vostra passione per questo genere musicale.
Il disco suona benissimo grazie alla produzione di Aldo Lonobile, che riesce nell’intento di portarvi la band in salotto: ed è una gran bella invasione, se è vero che vi sembrerà di essere avvolti dal basso di DiGiorgio, spostati dalla batteria di Zonder e travolti dagli assoli di Caffery.
Per chi tra voi volesse dettagli su come suonasse mai questo heavy metal “in your face” degli Spirits of Fire, dirò che dovrete immaginarvi i Judas Priest, evidente modello di riferimento principe della band statunitense, incontrare i Savatage meno sinfonici. La voce di Lione spinge richiamando quella di Halford, pur sapientemente evitando d’ingaggiare una sfida urlatrice, ma piuttosto mettendola sulla potenza. Il risultato è un perfetto amalgama tra voce, strumenti, arrangiamenti e scrittura che, francamente, riconcilia chi scrive con quell’heavy metal purissimo che, purtroppo spesso ricoverato in gerontologia, ogni tanto non manca di regalare sorprese fresche, quasi fosse un ragazzino.
Embrace the Unknown non ha filler: tutti i brani sono di ottima qualità. Pur rimanendo fedeli a una proposta univoca e monolitica, gli Spirits of Fire sanno risultare dinamici grazie a un eccellente impasto di aggressività e melodia: che poi è ciò in cui consiste il nostro amato heavy metal.
La title track pare riassumere tutti i brani del disco: veloce, grande riffing, melodia al limite dell’epicheggiante, tecnica sopraffina, assolo portentosi, e pure una parte centrale lenta e quasi progressiva.
Ascoltate l’opener Second Chance: non potrete rimanere fermi e il vostro collo patirà le conseguenze di un headbanging che credevate dimenticato. My Confession è l’incontro perfetto tra Judas Priest e Savatage, con quel tono drammatico che sfocia in un ritornello pesante e melanconico.
E che dire di Wildest Dreams, forse l’episodio più facile del disco, che, ciò nonostante, riesce a non risultare stucchevole?
Resurrection è un macigno che ti si appiccica addosso e ti costringe a ringraziare gli Dei del Metallo per avertela donata. Sea of Change si apre con un arpeggio e un assolo che suona un po’ Black Sabbath della fine degli anni Ottanta, per poi evolversi in un mid-tempo cadenzato che ci si chiede come sarebbe stato se alla voce avesse avuto un Jon Oliva: l’arrangiamento illumina il brano, innestando veri pezzi di bravura tecnica che, tuttavia, mai stona e anzi perfettamente si accorda con il tono generale della canzone, con un’uscita ariosa che è un’illuminazione.
E se i Doctor Butcher uscissero a cena con KK Downing? Chissà, forse ne salterebbe fuori qualcosa tipo Shapes of a Fragile Mind; mentre Hearts In The Sand presenta una strofa particolarissima (e davvero ben interpretata da un ispirato Lione), che scaturisce in una bella melodia.
House Of Pain è aperta da un riffone pesante che più priestiano non si può, per poi perdersi un poco in un ritornello buono, ma un po’ meno efficace di altri. Remember My Name è un ballatone drammatico e dolce al tempo stesso, appoggiato su una base ritmica particolarissima, impreziosito da un assolo di Caffery soltanto apparentemente fuori contesto e da una prova matura di Lione.
Chiude Embrace the Unknown la splendida Out In The Rain, capace di assommare tutto quanto vi piace dell’heavy metal: la voce di Lione modula sensibilità e aggressività lungo un pezzo straordinariamente vario, dinamico, ricco, elegante, epico e fresco. Bellissimo e così tanto Savatage. Se Caffery sa ancora scrivere pezzi del genere e convincesse Jon Oliva a rimettersi dietro ai tasti d’avorio, non potremmo non attenderci qualcosa di grandioso dall’auspicato ritorno dei Savatage.
Non ve lo dico più: andate ad ascoltare Embrace the Unknown, perché è semplicemente uno dei migliori dischi di puro heavy metal dell’anno. E siamo a metà febbraio! Ve lo ritroverete nelle orecchie e, sono certo, non smetterete di ricorrere ad esso nei momenti in cui avrete bisogno di chitarre distorte e teste che sbattono. E ce n’è sempre bisogno. Bravi! Bravi!

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