Recensione: Exodus

Di Roberto Gelmi - 5 Luglio 2014 - 13:26
Exodus
Band: Signum Regis
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2013
Nazione:
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75

Veste classica per il terzo album degli slovacchi Signum Regis, che vanno sul sicuro affidandosi all’artwork di Felipe Machado Franco e al mastering a cura di Tommy Hansen. Il full-length è un concept (l’ennesimo, dopo il self-titled del 2008 e The Eyes Of Power sulle vicende tra Romani e Parti) ispirato all’epos biblico della fuga dall’Egitto e vanta un nutrito cast di ospiti (quasi da metal-opera), tra cui nove cantanti che interpretano un brano ciascuno.
Exodus è, altresì, un disco power che non vuole stupire (se non per il folto gruppo di special guest), ma si colloca nell’alveo di album che puntano sulla “quadratezza” del sound e su certa attitudine old-school mai invisa ai fan di lungo corso.

Tutto prende avvio da “On The Nile“, un’introduzione con chitarre acustiche e acqua scrosciante in sfondo, preludio a “Enslaved”, traccia con ottime linee di basso e tanta grinta, ma con Thomas Winkler (Gloryhammer) che non graffia al microfono. A metà brano è godibile un assolo vicino ai Vision Divine e Nocturnal Rites, con batteria cadenzata.
Nel complesso si respira una tonificante aria epica, scevra però di qualsivoglia barocchismo, che abbondano invece nel prosieguo del platter, già a partire dalla successiva “The Promised Land”, aperta con un intro suggestivo/avantasiano, e ricca di virtuosismi appaganti e forte di un’ottima sezione ritmica. Superano l’impasse citazionista gli accenti corali, con echi stratovariusiani, e Michael Vescera (Animetal USA, Fatal Force, Obsession) si dimostra un cantante sempre all’altezza della situazione (a tratti ricorda il timbro di Andy Kuntz).
Let Us Go!” ha un incedere più cattivo, con linee vocali baldanzose. Il refrain è tirato, ma godibile; da segnalare, al centro del pezzo, uno stacco heavy, con terzine gustose e bending chirurgici. “Wrath of Pharaoh” vede lo svedese Samuel “Sam” Nyman (Manimal) al microfono su registri altissimi in un ritornello vicino al sound targato Primal Fear. La doppia cassa è di casa, gli assoli sono sorretti da un’indubbia creatività e non mancano nemmeno venature AOR.
Toni mesti su chitarra distorta all’inizio di “The Ten Plagues”, brano che rievoca il dettato dei primi Edguy e presenta un assolo malmsteeniano delle 6-corde. Matt Smith, voce dei Theocracy, non brilla più di tanto, ma non poteva mancare quale ospite su un album dal tema biblico.
Ticchettio infernale per i primi secondi della strumentale “Last Days in Egypt”, con tastiere atmosferiche, ancora patenti richiami ai seminali Stratovarius, e poi un andamento volutamente strascicato a rendere l’acme della sopportazione degli ebrei e l’imminenza dell’esodo dall’Egitto. Il brano è inoltre un introibo più che solenne alla title-track, con la voce argentina di Lance King (Gemini, Ilium) e tinte tra Hammerfall e il sommo progetto di Sammet. La sezione strumentale centrale, d’altra parte, stupisce ancora dipanando ottimi dialoghi chitarristici.
Song of Deliverance” è il brano più lungo del lotto (siamo sui sette minuti), inizia gagliarda e brilla della prestazione regalata dalla bella e brava Daísa Munhoz (Vandroya), degna controparte di Matt Smith. A metà del quinto minuto compare un lapalissiano tributo agli Helloween, cui si ricollega idealmente l’inaspettata cover, in calce di platter, di “Sole Survivor” con un pirotecnico Adrián Ciel (Baron Blade ed ex-Signum Regis), il quale ci mette del suo, ma non arriva a eguagliare il fabbro Uli Kusch (ex-Gamma Ray, ex-Helloween, ex-Masterplan). Il batterista di Aquisgrana nella parte iniziale e finale dell’opener di Master Of The Rings (album che compie vent’anni a giorni e primo dell’era Deris) ha raggiunto, infatti, vette d’eccellenza, come poi in brani come “Falling Higher” e “Revelation” (non a caso Better Than Raw è l’album che ne ha consacrato il valore non solo esecutivo, ma anche compositivo). Buona, dunque, la scelta di riproporre un cavallo di battaglia del gruppo tedesco; peccato, però, per le scelte vocali che azzoppano il brano già reinterpretato (appena meglio) dai Dragonland.
Non male, infine, nemmeno la bonus track, “Mountain of God”, con tanto di violoncello e crepitio di fuoco (il flegòmene bàtos biblico?) in apertura, seguiti da tanto groove e un refrain teatrale che merita di certo un ascolto.

I Signum Regis realizzano un disco coeso, nonostante la variegata schiera di cantanti chiamati in causa (sembra che sia ormai una moda avere un approccio di questo tipo in certo ambito power), e suonato con verve incurante del nuovo a ogni costo. Album, in definitiva, da annoverare tra quelli presenti e passati che stagliano per un’oculata medietà tutt’altro che mediocre.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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