Recensione: Genesis

Di Stefano Saroglia - 12 Febbraio 2021 - 12:00
Genesis
Band: Simulacrum
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
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85

I Simulacrum sono una band progressive metal proveniente dalla Finlandia; le radici del nutrito combo – un settétto! – risalgono al 1999, anno in cui Christian “Chrism” Pulkkinen, ispirandosi a band quali Stratovarius e Dream Theater, scrisse un pugno di canzoni che pochi anni dopo avrebbero costituito il nucleo dell’album di debutto della band, The Master and the Simulacrum (uscito nel 2012). Chrism ha studiato pianoforte dall’età di sei anni, consolidando tecnica e solfeggio ma il punto di svolta è stato l’ascolto di una cassetta che un amico aveva realizzato per lui (i tempi eroici delle compilation su nastro!). Così grazie ad Iron Maiden, Gamma Ray, Helloween, Megadeth & company si compie il rito di passaggio al mondo heavy. Nel 2015 viene dato alle stampe il secondo full lenght Sky Divided, un concept incentrato sull’attacco al pianeta Terra da parte di una razza aliena affamata di risorse naturali. In seguito ad un periodo che ha visto il rallentamento delle attività, la line up ha subito alcune variazioni: Tatu Turunen sostituisce Henri Kallio alla batteria e accanto al frontman originale Niklas Broman giunge Erik Kraemer a dar man forte sulle linee vocali.

La cover di Genesis raffigura un demiurgo bramanico intento nell’attività di supervisione dell’universo attraverso le leggi del caso (il dado), l’infinito, lo yin e lo yang e, per non far mancare niente, compare anche il triangolo, tanto caro alla geometria sacra. Veniamo se la musica rispecchia tanta dovizia di particolari…

“Traumatized” apre le danze con un ostinato ritmico di chitarra (otto corde) che supporta le evoluzioni di tastiera e le linee vocali davvero convincenti; il basso è presente e si concede anche un assolo verso la fine del brano. Sono presenti elementi moderni ma nel complesso il sapore è comunque vintage power-prog. “Nothing Remains” parte con un riff thrash metal impreziosito tempestivamente da linee vocali ben amalgamate e svolazzi di tastiera in stile Kevin Moore (anche nei successivi soli permane la stessa cifra stilistica). La batteria è sicura e il mood ricorda i Dream Theater di When Dream and Day Unite. La terza traccia “Arrythmic Distortions” prende avvio con un crescendo interessante sia dal punto di vista ritmico, sia da quello melodico. Il cantato è, come al solito, ricchissimo e copre con facilità tutte le frequenze possibili. I tempi dispari sono fluidi e non disturbano con la soluzione momentanea degli arrangiamenti, anche perché, quando uno strumento procede a zig-zag, un altro è subito pronto a riequilibrare il tutto.

Il chapman stick fa capolino nell’intro clean di “Like You. Like Me”: le influenze prog anni ‘70 ci sono tutte (chi ha detto Yes?). Il pezzo si snoda tra atmosfere rarefatte e momenti più epici, respirando a tratti anche un po’ di blues. Immancabili comunque i tempi sincopati e una voce “stile LaBrie”, sì, ma quello dei tempi migliori! Un complesso riff di chitarra introduce “Scorched Earth”: la canzone è veloce, piena di energia. Basso, chitarra ritmica e batteria sono un tutt’uno sia negli stop/go sia nelle accelerazioni. Neanche a dirlo le voci tessono un lavoro maestoso e sono presenti alcuni stacchi che richiamano il capolavoro prog. per eccellenza, ossia “Metropolis”. Ottime anche le sonorità del basso e i soli di tastiera che ricordano l’hit immortale “Kiss of Judas” degli Stratovarius.

Completata la sequenza iniziale di cinque pezzi, è il turno della suite “Genesis” che si articola in quattro movimenti distinti. L’introduzione è affidata a “Part 1 – The Celestial Architect” in cui si vira energeticamente su un progressive di matrice più pura e ci si ritrova di colpo nell’Antro del Mago. Come tradizione vuole, la logica del pezzo inizia a venir meno, ma l’esplorazione non è completamente fine a se stessa: qualche aggancio alla forma canzone compare di tanto in tanto come un salvagente per i dispersi nel mare di cambi proposti. Lo “scherzo” (anche se siamo al primo movimento) e la divagazione in tempi non convenzionali la fanno da padrone: si susseguono momenti “Ozric”, un assolo di vibrafono, cromatismi e giochi strumentali vari. Che piaccia o meno, questo è prog! In “Part 2 – Evolution of Man” si parte con il moog e l’atmosfera si fa più cupa ma non per questo meno interessante. La chitarra sfoggia il suo arsenale solistico e il basso/chapman interviene con un tono suadente, tranquillizzante ed intimo. “Part 3 – The Human Equation” inizia con un duetto/terzetto pianoforte/voci. Anche qui i paragoni con i mostri sacri prog più datati e recenti si fanno sentire, ma l’armonia è interessante nelle sue modulazioni; la vena classica di Chrism emerge ripercorrendo topoi basilari dell’epoca d’oro (Bacalov, PFM). La chiusura della suite e dell’album arriva con “Part 4 – End of Entropy”: sulla ritmica asimmetrica e convulsa di basso e di batteria si stagliano le melodie di voce e tastiera. Il pezzo è ricco, movimentato e fornisce l’ennesima prova di competenza e gusto per la composizione “non convenzionale”. In ogni caso non è mai noioso, rispecchiando la filosofia generale del lavoro, ossia divertire in modo complesso, ma non esclusivamente fine a se stesso.

Volendo fare un’identità all’album, possiamo dire che è in gran parte il risultato del lavoro di composizione alla tastiera, secondo l’approccio tipico dei gruppi progressive d’antan: questo tipo di metodo è riconoscibile nei brani che, a un orecchio attento, evidenziano differenze rispetto alle più consuete canzoni nate dall’estro della chitarra. Le influenze sono molte e si sentono, ma nel complesso le composizioni raggiungono un buon livello di originalità; l’ascoltatore curioso sarà felice di cimentarsi nello scoprire piccoli tesori che sono stati relegati nel background in fase di mixaggio. Più ascolti rivelano, infatti, nuovi aspetti che di primo acchito possono sfuggire. Per ammissione dello stesso Chrism, nei lavori passati ci sono state difficoltà, ripensamenti e talvolta errori, che però hanno contribuito al processo evolutivo della band: questa “umanità” traspare nelle canzoni ed è un punto di forza ulteriore a vantaggio dei finnici. La scelta del doppio cantante, infine, per quanto poco comune, è davvero azzeccata ed è uno dei motivi per cui questo album è godibile per molti tratti anche ai non addetti ai lavori o ai fan del progressive più puro.

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