Recensione: I Feel The Everblack Festering Within Me

La parabola ascendente degli statunitensi Lorna Shore sembra non conoscere limiti. Raramente infatti ci è capitato di assistere all’esplosione di una band in maniera così rapida e repentina come nel caso del five-piece guidato da Will Ramos e Adam De Micco. Ed è proprio dai tempi dell’entrata del poliedrico e talentuoso vocalist Will e dalla release di To The Hellfire che la band è in un’irrefrenabile spirale ascendente di popolarità che ha scosso tutta la scena metal mondiale.
La band deathcore formata nel New Jersey torna quindi con il quinto platter in studio a tre anni di distanza dal grande successo di Pain Remains, con un disco il cui titolo esprime molto (ma non tutto), di quello che sì celerà in questi sessantasei minuti di musica; “I Feel The Everblack Festering Within Me” associato alla claustrofobica copertina, è difatti un preambolo che rappresenta uno specchio in un mondo sonoro malato, oscuro e devastato. Il disco però rappresenta molto più di questo, ed infatti va subito segnalato come questo nuovo lavoro dei Lorna Shore mostra in primis una maturazione e una maggiore definizione e rifinitura di tutti quei dettagli che aveva reso Pain Remains il gran disco che era. Anche in questa prova in studio i Lorna Shore non stravolgono il loro sound ma lavorano sui dettagli aggiungendo qualche piccola novità sonora qui e lì e ottenendo un risultato più bilanciato ed equilibrato, con una produzione più grandiosa in cui le sinfonie sono ancora più esaltate nel mix finale e dove la varietà compositiva gioca a favore dell’album stesso. Nonostante sia estremamente pesante e sinfonica poi, l’opera non risulta mai stucchevole arrivati alla fine della sua ora abbondante.
Crediamo inoltre che un’altra testimonianza della maturazione del sound dei Lorna Shore venga anche dalle linee vocali di Ramos che, oramai consapevole delle sue immense doti, sceglie di non esibirle tanto per il gusto di farlo, ma rimane sempre fedele al bisogno del pezzo in questione. Insomma meno “showing off” da parte sua, specialmente nelle sezioni con breakdown e parti in “pig squeal” estese, nel precedente disco un pelo abusate e che in questo nuovo lavoro vengono dosate con più consapevolezza, tanto che, se in Pain Remains le suddette sezioni erano presenti in quasi tutti i brani, qui arrivano ogni tanto e quando arrivano riescono ad impattare sempre.
L’evoluzione maggiore c’è forse stata nell’emotività che trasudano i brani del platter, quell’emotività che emanava un pezzo come la title-track del loro ultimo lavoro in studio che ha commosso mezzo pianeta e che è stata un’arma irrinunciabile per tutti i live show della band. Ecco, quel senso di disperazione, dramma, con tanto di nodo alla gola, i Lorna Shore lo riescono ad esplorare in molti pezzi di questo platter, con un climax finale di particolare impatto che si raggiunge su Forevermore in chiusura. D’altronde, come detto in svariate interviste dal vocalist e compositore dei testi della band Will, è chiaro come il suo intento fosse proprio quello, ossia di far trasparire in musica quei drammi che lo hanno afflitto nella sua vita, a partire dal difficile rapporto col padre (Glenwood), la morte di una persona cara (Forevermore) o anche la storia di demenza e malattie mentali che hanno tormentato la sua famiglia per generazioni (Prison of Flesh).
I Feel The Everblack Festering Within Me è un disco che sa essere dunque brutale come pochi, ma allo stesso tempo emotivo e toccante senza sacrificare il suo lato più distruttivo (musicalmente parlando) e senza abbandonare quel senso di epicità e solennità che è spesso stato un trademark della band (si pensi ad un pezzo come Sun Eater dal precedente disco).
La varietà compositiva dell’album e le piccole novità disseminate qua e la nel sound della band sono evidenti sin dai primi quattro pezzi in scaletta. Prison Of Flesh si apre con un’atmosfera opprimente, malsana e inquietante. Sembra quasi di essere catapultati nella pellicola di un film horror, mentre dei suoni sintetici e basi percussive si caricano piano piano di intensità, sfociando in un assalto frontale micidiale, per uno dei pezzi più brutali dell’intero lavoro. Ci hanno sorpreso molto quei mini inserti di “swirl” di pianoforte introdotti a getto nel pezzo con tanto di stacco della musica. Un effetto quasi “glitchy” che dona al sound quella sensazione di caos in più, tanto per disorientare in maniera ancora più evidente l’ignaro ascoltatore. Tecnicismi e riff in questo pezzo abbondano, con oltretutto delle sezioni in blast-beat assolutamente devastanti, ma è sul chorus che si ha quell’anima più solenne e regale che la band ci ha spesso regalato, per un brano che trasuda di epicità e brutalità e che non poteva introdurci al disco in maniera migliore. Il breakdown finale con tanto di “pig squeal” vocale di Ramos è piuttosto telefonato, ma ha il suo perché, mentre dal punto di vista vocale le liriche e la musica portano in vita perfettamente il concept della canzone, ossia quello della malattia mentale e quella sensazione di star perdendo ogni controllo su te stesso mentre i demoni all’interno della tua mente ti rendono piano piano un guscio vuoto, un prigioniero del proprio “carcere di carne”, parafrasando il titolo – “I am nothing but barren, a prison of flesh to confine the curse within my brood” (quest’ultimo un riferimento proprio alla storia di queste patologie che hanno afflitto la famiglia Ramos per generazioni, come spiegato poco fa)- E poi la citazione da cui trae ispirazione il titolo del del disco, che trova il suo contesto perfetto in questo claustrofobico e devastante pezzo , “I descend into the void of ever growing night, when I’m falling in, you pull me back, I feel the everblack festering within me, they’re coming to get me”.
La successiva Oblivion è il pezzo più avventuroso, strutturato ed elaborato del platter e non per nulla scelto come singolo apripista del disco. Si tratta di un pezzo ricco che contiene tante sfaccettature del sound dei Lorna Shore ed è il primo pezzo per quanto ci riguarda che mostra la grandezza ed il potenziale delle sinfonie di Andrew O’Connor, davvero l’uomo in più di questa band. Ci è particolarmente piaciuto lo stacco sinfonico sul finale con l’aggiunta di quelle sezioni synthwave di sottofondo, mentre il brano è un continuo succedersi di riff dinamici e serrati ed uno degli assoli di chitarra più convincenti di Adam de Micco, furioso e ipertecnico ma allo stesso tempo di gran gusto. Ramos dal canto suo varia da una timbrica in scream pseudo-black metal a delle sezioni più basse e gutturali mostrandoci ancora una volta il range del suo repertorio e allo stesso tempo affrontando delle liriche che parlano del pianeta, dell’essere umano e della sua propensione alla distruzione – “take all of your regret and fucking bathe with it, we only know how to burn the forest, stain the ocean, rip the earth from it’s revolution, forcing a path through the ebb and flow of rebirth”- chiedendosi quanto l’essere umano potrà ancora spingersi in avanti prima che perda il controllo di tutto (“fall into oblivion, how far will we go until we lose it all?”).
In Darkness stupisce sin dai primi secondi con la sua sezione gotico/sinfonica che mette in luce l’incredibile maestria con cui sono stati assemblate queste parti, senza contare l’uso dei cori che regala quel qualcosa in più all’atmosfera di questo inizio di brano, dove si ha l’impressione di essere stati catapultati in una cattedrale gotica nel mezzo di un decadente paesaggio autunnale, il tutto accompagnato da una colonna sonora che potrebbe racchiude una delle selezioni più “goth oriented” tratte dai primi album di Evanescence, Sirenia o ancora, dei Cradle Of Filth, ma trasposte in maniera più cinematica e grandiosa. Questa sezione ci ha lasciato senza fiato, mentre il pezzo si catapulta in una bordata sonora incandescente in pieno stile Lorna Shore. Questa composizione è atmosfera pura e quando Will Ramos urla quel “we live in darkness” ecco che scendono i brividi lungo la schiena! E poi c’è quel “we are alive” scandito ancora una volta da Ramos da cui parte un assolo di chitarra prima melodico e caldo che poi si trasforma in un trionfo di tecnicismo funambolico!
Dall’altro lato della medaglia c’è Unbreakable che è di quanto più solenne e maestoso sia stato mai composto dai Lorna Shore, ricordandoci a tratti un brano come Sun Eater dal precedente disco, proprio per questa sua particolarità. L’assedio è forsennato, ancora una volta una valanga di note ci stravolgono per un assolo di chitarra al fulmicotone condito successivamente da un classico breakdown alla Lorna Shore.
In Glenwood si entra in uno dei brani più intimi e personali per quanto riguarda la figura di Will Ramos e anche la musica è uno specchio del dramma interiore del vocalist dei Lorna Shore. Niente breakdown in questo brano, per una composizione che alterna melodia e stacchi, a fasi tiratissime, ma sempre con quel senso di “peso emotivo” e di nodo in gola che i Lorna Shore in questo disco cercano spesso di esplorare. Molto interessante l’uso dei vocalizzi da parte di una voce femminile (un aspetto che ci piacerebbe che la band esplorasse ulteriormente nei prossimi album), voce femminile che riappare in uno degli outro più belli del disco, dal sapore magico, etereo, sognante e folkloristico… Brividi! A livello lirico il testo analizza il difficile rapporto dello stesso Ramos con la figura di suo padre con cui per tantissimi anni è stato totalmente estraniato. Egli si chiede se è troppo tardi per riallacciare un rapporto ormai rovinato da anni di distacco. D’impatto la frase “you were the tree from which I grew, I was the branch you never knew”.
L’epicità torna a livelli massimi con Lionheart, uno dei nostri brani preferiti dell’album. Pazzesco come questo pezzo riesca a coadiuvare la brutalità dei Lorna Shore con un ritornello in pulito sorretto da dei cori che sono di quanto più vicino al power metal questa band abbia mai inciso, almeno come “feel”. La regale potenza del chorus ci fa veramente spiccare il volo, quasi stessimo ascoltando un brano dei Sabaton, perché sì, la sensazione è proprio questa. Anche l’assolo insolitamente caldo e melodico al suo incipit è una fresca novità, mentre il lato cinematico di questo pezzo continua a trasportarci con la mente in una pellicola hollywoodiana; una sorta di limbo tra Braveheart e il Signore degli Anelli. Un viaggio alle porte del Valhalla o volendo all’interno di una saga fantasy, sta all’ascoltatore decidere quale viaggio intraprendere con la sua mente. “We’ve seen though broken skies, we’ve been through crashing waves, we’ve bathed in bloody rivers and it will never be the same”.
Dopo questo sestetto di pezzi eccezionali forse arriva un lieve calo con la successive Death Can Take Me un violentissimo e oscuro viaggio da oltre sette minuti che poco aggiunge a quanto fatto fin ora riuscendo comunque ad offrirci un pezzo di valore con la sua opprimente violenza dai toni drammatici conditi da un lavoro di chitarra encomiabile.
War Machine con i suoi effetti simil-elettronici all’inizio, la sua chitarra sferzante e degli echi di mitragliatrici e proiettili in sottofondo che ci hanno molto ricordato un disco come Death Cult Armaggeddon dei Dimmu Borgir, ci dona ancora una volta quell’effetto da pellicola di Hollywood, ma stravolta, la trasposizione più adatta è quella di un film di guerra a tinte distopiche. Il pezzo è travolgente e pregno di oscurità, a partire dell’attacco della band. Una sfuriata senza fine per uno dei pezzi più estremi del lotto.
Echi symphonic black metal e cori gotici in A Nameless Hymn, ancora una volta mostrando il volere della band di non rimanere mai statica musicalmente parlando. Torna quella timbrica di Ramos più incentrata sullo scream “arcigno” e malsano tipico delle sonorità più “black metal oriented” che i Lorna Shore avevano già esplorato sul precedente disco, ma il breakdown con tanto di “pig squel” protratto a lungo, riporta tutto in territori molto ben noti per la band. Sicuramente un pezzo che vuole ricalcare un Welcome Back O’ Sleeping Dreamer (l’opener dell’ultimo platter), riuscendoci in maniera convincente.
Ma il momento più da lacrime che credo tutti si sarebbero aspettati arriva nella conclusiva Forevermore da quasi dieci minuti. Apertura delicata con tanto di violini, pianoforte e voce femminile, mentre il pezzo si condisce di una sinfonia delicata che sembra prendere il volo secondo dopo secondo, prima dell’entrata della band. In questo pezzo la sinfonia è tanto importante quanto lo è il ruolo della band e riesce a ricreare quell’aurea di tristezza e desolazione che trasuda dal pezzo. Gli stacchi con sezioni ad arco ci ammaliano, le atmosfere sinfoniche ci avvolgono e ci mostrano, in particolar modo in questo pezzo, come i Lorna Shore abbiano voluto dare quella marcia in più al loro sound, soprattutto per quanto riguarda le sinfonie e la qualità delle orchestrazioni. “Remember this day, death is the debt we repay, I know this isn’t goodbye, we’ll meet again on the other side”, il climax dell’emotività del brano è raggiunto con questa frase che racconta lo straziante dolore di Will e ci fa riflettere su come la morte ed il cordoglio siano uno scotto da pagare quando si ha amato tanto una persona nella nostra vita terrena. Un delicato pianoforte, un violoncello e lo scrosciare delle onde ci accompagnano negli ultimi istanti di questo lavoro, con la consapevolezza che il ciclo della vita continua, ma soprattutto, che “the spirit carries on”, citando i Dream Theater– “we pass the torch, we live on forevermore, together forever reborn, we live on forevermore”.
In conclusione I Feel The Everblack Festering Within Me riesce nell’arduo compito di bissare la qualità di un lavoro eccelso come Pain Remains. I Lorna Shore infatti con questo platter, pur non stravolgendo le loro coordinate sonore, riescono a limare e migliorare moltissimi dei dettagli del loro sound, con più varietà stilistica, una migliore produzione, un lato sinfonico che in questo disco risulta gigantesco e la consapevolezza che non bisogna essere per forza brutali dall’inizio alla fine per avere un impatto nel cuore degli ascoltatori. Se la trilogia di Pain Remains continua ad essere intoccata e irraggiungibile nel repertorio della band come qualità, questo nuovo platter è probabilmente il disco definitivo della carriera della band statunitense, almeno fino ad oggi. Se amate il metal estremo (e non solo il deathcore dato che risulta riduttivo classificare il five-piece statunitense unicamente sotto questo moniker a questo punto della loro carriera), non potete prescindere dall’ascoltare una delle band più meritevoli e più dominanti del pianeta in questo momento, con uno dei dischi estremi più belli ed ispirati usciti quest’anno.