Recensione: Impermanent resonance

Di Tiziano Marasco - 19 Agosto 2013 - 6:30
Impermanent resonance
Band: James Labrie
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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77

Ridendo e scherzando James Labrie è, tra i Dream Theater, l’elemento che più degli altri ha cercato di dare una continuità alla sua carriera solista. Prima con i MullMuzzler e poi semplicemente come James Labrie infatti il nostro è sempre stato accompagnato da Matt Guillory, anima delle musiche che fanno da sottesto alla voce del nostro durante le sue uscite dal teatro. In tal senso possiamo considerare questo Impermanent resonance come la quinta uscita ufficiale di un duo che ormai collabora abbastanza regolarmente da 15 anni. Un periodo in cui LaBrie e Mallory si sono costantemente emancipati dal progressive e sono arrivati ad avere un loro proprio sound che unisce basi piuttosto dure, prossime al djent e a certo death neomelodico, con le linee vocali decisamente aggraziate del canadian singer (come lo chiamava Portnoy).

Ne viene fuori un disco compatto, semplice e lineare che proprio per questo non è destinato agli amanti del prog tout court, abituato a trame molto più complesse. Al contrario, potrebbe fare la felicità di chi ascolta Soilwork (non a caso a livello compositivo si segnala la collaborazione con Peter Wichers), In flames e metal core. Le linee di chitarra infatti strizzano molto spesso l’occhio a sonorità svedesi, contraddistinte spesso da un ottimo groove, come il buon singolo Agony, apripista dell’album, aveva lasciato intendere. A rincarare la dose vanno aggiunti i sempre più frequenti growl del batterista Peter Wildoer, presenti come backing vocals in buona parte delle canzoni. Su questa linea si segnala perentoria l’ottima Slight of hand, con il suo ritornello epico e la sua strofa corrosiva.

D’altro canto questo accostamento di una base musicale rocciosa, delle tastiere futuristiche di Mallory e degli ottimi ritornelli splendidamente interpretati da Labrie spesso e volentieri porta a soluzioni decisamente prossime al gothic metal di ultimissima generazione. Le turbe di sbarbatelli con la cantante che sempre più spesso infestano gli scaffali del settore metal avrebbero parecchio da imparare circa l’unione di potenza e melodie orecchiabili. Ad esempio ascoltando Lost in the fire, Destined to burn o la superlativa Amnesia.

Discorso a parte meritano infine le due ballad, dove la componente prog emerge incontrastata per fondersi ad un’attitudine pop che non fa mai male, ed anzi non viene disdegnata da band apparentemente molto più complesse come ad esempio i TFK. Say you’re still mine è un piccolo gioiello, ma il pezzo di massimo livello è indiscurtibilmente Back on the ground, da ascoltarsi a ripetizione. Proprio su Back on the ground si ha l’idea che i primi a divertirsi siano i musicisti, e nello specifico Labrie, che nella band madre in questi ultimi anni ha costantemente dovuto adattarsi ai numerosi cambi sonori presenti nelle varie uscite.

Che dire per concludere? Anzitutto, se siete fan incalliti dei Dream Theater, evitate come la peste questo Impermanent resonance. Data la semplicità, avrete l’idea che il vecchio James non ci stia più con la voce e non sia più in grado di darci le prestazioni da supervirtuso quali ci ha abituato, rovinandovi così l’attesa per un altro disco di imminente pubblicazione. Tutti gli altri invece si troveranno un lavoro che seppur non particolarmente innovativo presenta sonorità peculiari ed accattivanti, segno di una band in ottimo stato e che molto probabilmente ha trovato la sua definitiva identità.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

Sito ufficiale di James Labrie

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