Recensione: Impheria

Di Alessio Gregori - 11 Giugno 2016 - 10:00
Impheria
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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68

Ci sono gruppi che vengono presi dalla fretta di pubblicare il loro primo lavoro, saltando una doverosa “gavetta” e correndo, perciò, il rischio di bruciarsi al primo ascolto; ci sono gruppi che, invece, preferiscono accumulare la giusta dose di esperienza per costruirsi con il tempo la propria identità prima di fare il grande salto e presentare al mondo il proprio progetto musicale. I veronesi Real Illusion appartengono senza dubbio alla seconda categoria, avendo atteso la bellezza di 16 anni prima di dare luce al loro esordio discografico, anni che immagino siano serviti per perfezionare al meglio il loro sound e per trovare la giusta amalgama.  Il genere al quale appartengono, il progressive rock/metal, vede interpreti internazionali di altissimo livello e non è facile mettersi in gioco e reggere il confronto. Aggiungo, infine, che per il recensore è sempre un lavoro complicato andare a giudicare una band italiana, perché lo spirito di appartenenza e le radici culturali fanno sì che ci si possa entusiasmare facilmente di fronte ai primi aspetti positivi rischiando di trascurare quelli negativi, di fronte ai quali, però, la stampa estera sarebbe impietosa. Pertanto mi accingerò ad analizzare questo Impheria cercando di dimenticare le mie origini e in modo obbiettivo.
L’idea che mi sono fatto, dopo diversi ascolti, è quella di poter dividere quest’album in tre grandi blocchi. Il primo blocco è quello costituito dai tre pezzi iniziali “Real Illusion”, “Master of The Twilight” e “Wandering”. Questo terzetto costituisce indubbiamente il meglio dell’album perché dimostra la capacità dei nostri di creare un’interessante connubio tra modernità e atmosfere del passato. La scelta, ad esempio, di impostare la tastiera su sonorità tipicamente “Seventies” à la Deep Purple è azzeccata e costituisce un elemento distintivo della band.  Si parte subito bene con un opener piacevole e convincente fin dal primo ascolto e che, soprattutto, ci introduce alla voce di Fabi, cantante con un timbro interessante, molto personale. Se avete avuto la fortuna di ascoltare quel piccolo capolavoro dei tedeschi House of Spirits dal titolo Psychosphere potrete scorgere delle somiglianze con Olaf Bilic, cantante forse poco conosciuto ma che all’epoca aveva saputo attirare i favori della critica.
La successiva “Master Of The Twilight” sembra addirittura appartenere a quell’album, con la voce profonda e melodica di Fabi ancora più in evidenza, perfettamente a proprio agio con le ritmiche cadenzate tipicamente progressive.  Quello che colpisce è l’essenzialità del pezzo unito, però, alla cura di tutti i dettagli e alla melodia ricercata. Anche “Wondering” mantiene alto l’interesse dell’ascoltatore e conclude degnamente un trittico davvero pieno di qualità.
L’intensa ballad “Another Day, Another Stone” interrompe questo idillio e ci traghetta verso il secondo blocco di canzoni, quello forse meno convincente.  Qui, come se ci fosse una seconda anima del gruppo, i toni si spostano verso un hard rock leggermente più commerciale con le tastiere ora a fare più che altro da contorno. “Out of My Life” è un po’ scontata e, seppur piacevole, passa sostanzialmente inosservata. “Living After Death” è un pezzo strappa lacrime ma un po’ troppo da pub nel quale Fabi duetta con la bella voce di Jessica Passilongo, ospite per l’occasione.  “My Faded Angel” è una canzone melodica ben suonata, piacevole ma che non incide particolarmente e non rimane troppo in testa. Infine il riff della successiva “Burnig” ricorda un po’ quello di “Heading Out To The Highway” dei Judas Priest. La canzone prende un’altra strada ma quella vaga sensazione di già sentito purtroppo rimane presente. A risollevare le sorti arriva finalmente la lunga e conclusiva “Impheria” che costituisce da sola il terzo e ultimo blocco e recupera finalmente il sentiero che sembrava abbandonato, quello più personale, caratterizzato da ritmiche prog e tastiere anni Settanta. Una suite davvero ben fatta e degna di nota, con una melodia accattivante dal ritmo serrato e capace di creare il giusto grado di tensione e interesse.

Cosa dire quindi in conclusione? Impheria è un album nel complesso più che sufficiente, con alcune vette di classe che mettono in mostra indubbie capacità e potenzialità.  Ci sono, però, dei cali lungo il percorso che è giusto e doveroso sottolineare, non per smorzare gli entusiasmi ma solo per incentivare i nostri a fare ancora meglio in futuro, visto che le premesse sono davvero buone e che un esordio come questo potrebbe costituire un bel biglietto da visita non solo in Italia ma anche oltreconfine.  

 

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