Recensione: In The Nightside Eclipse

Di Alberto Fittarelli - 7 Dicembre 2002 - 0:00
In The Nightside Eclipse
Band: Emperor
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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92

Questo disco E’ il black metal norvegese. Punto. Certo, c’è chi dirà che esistono altri esempi anche più calzanti, storicamente e musicalmente, ma a chi non è mai venuto automatico il riferimento a quest’album, parlando di quello stile musicale/corrente pseudo-filosofica che sarà destinato a lasciare un segno indelebile nella storia dell’intero panorama metal mondiale?

Siamo nel 1994, e quattro adolescenti, poco più che diciottenni, ottengono la possibilità di registrare il loro primo full-lenght, dopo un demo, un omonimo EP e qualche sporadico spettacolo live. Già da tempo in Scandinavia le cose si stanno muovendo, il metal più oscuro si incontra col folklore locale o anche semplicemente con le gelide atmosfere proprie di quelle terre, e In the nightside eclipse risente di tutte queste tendenze, portandole all’estremo e raggiungendo a tutti gli effetti lo status di “arte”. I mainmen del gruppo sono il cantante/chitarrista Ihsahn (anche principale compositore della band) ed il secondo chitarrista Samoth, coadiuvati da Tchort al basso e Bård Faust alla batteria; si tratta di personaggi particolarmente inquietanti, nonostante la loro giovane età, per la loro attitudine antireligiosa e, particolarmente, antisociale: per quanto riguarda Faust, addirittura, la situazione culminerà con l’omicidio a sangue freddo di un omosessuale, mentre Samoth subirà una condanna di più di un anno in seguito ad atti vandalici nei confronti di cimiteri e chiese cristiani.
Ed il primo parto di queste quattro menti non poteva che essere un disco nero, intriso di oscurità sino al midollo, simbolo perfetto di quel feeling particolare che sta nascendo nella loro patria.

L’apertura del disco viene lasciata ad Into the infinity of thoughts, che con la sua intro dal flavour addirittura semi-industrial ci catapulta subito nell’atmosfera che pervade l’intero album: abbiamo l’impressione di trovarci al cospetto di una maestosa foresta, circondati da forze al di là dell’umana comprensione. La song si sviluppa poi su riffs veloci e trascinanti, a cui la voce di Ihsahn (uno screaming acidissimo) dona una potenza ed una capacità evocativa incredibili. Ma il vero segno distintivo degli Emperor sono le tastiere, suonate dallo stesso singer: la loro presenza è costante e necessaria, senza mai essere invadente; costituiscono infatti un vero e proprio tappeto sinfonico, che va a sovrapporsi alle melodie elaborate dalle due chitarre in modo stupefacente.

Passiamo poi a The Burning Shadows of Silence, con le sue dissonanze chitarristiche ed il cantato recitato nella parte centrale, dove emergono di nuovo le tastiere, nello scontro con una parte cadenzata che ricorda molto, nella struttura dei riffs, i Bathory più epici. Cosmic Keys to my Creations & Times è il primo vero e proprio classico della band: derivata direttamente dall’EP Emperor, si assesta di nuovo su tempi veloci e riffs violenti, con un break centrale giocato sul dialogo chitarre/tastiere ed una struttura complessiva molto elaborata, davvero soprendente se si pensa alla giovanissima età dei suoi autori. La quarta Beyond the Vast Forest fa emergere tutto il talento lirico di Ihsahn, che descrive una Natura maligna ed onnipresente, espressione di più insondabili entità. La song, musicalmente parlando, è giocata su un mid-tempo abbastanza semplice, ma su cui la sezione sinfonica si staglia nettamente. Così come fondamentale risulta essere anche nelle seguenti composizioni, a cominciare da Towards the Pantheon, che inizia con un arpeggio acustico, per poi reimmergerci in un black feroce sì ma senza mai essere velocissimo; c’è da dire che anche la produzione gioca una parte fondamentale per la riuscita dell’opera: i suoni sono tra i più freddi e taglienti mai sentiti sino ad allora, e si accordano perfettamente con la glaciale cover disegnata dal veterano Kristian Wahlin.

Il trittico finale è poi sapientemente giocato su dei veri e propri anthems: già The Majesty of the Nightsky, aggredendoci con tempi veloci ma digradando poi in un intervallo classicheggiante da brividi, ci introduce a quelle che sono forse le canzoni più rappresentative di questo periodo della band, e cioè la storica I Am The Black Wizards, con una delle liriche migliori mai lette nel black metal ed un finale, di nuovo, spaventoso; e la conclusiva Inno a Satana, in cui gli Emperor aggiungono al loro già nutritissimo carnet di idee dei cori puliti e profondi, raggiungendo una vetta compositiva forse mai più eguagliata neanche dalla band stessa.

Si tratta quindi di un disco che è quasi impossibile descrivere degnamente a parole: va ascoltato e vissuto, sentito in profondità. Il panorama di sensazioni che suscita è infatti enorme, e l’importanza di questo album sarà evidenziata negli anni successivi dalla miriade di clone bands che tenteranno di ripetere l’irripetibile, mentre gli Emperor stessi si avvieranno a guidare la scena black norvegese insieme a pochissimi altri artisti.

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