Recensione: Inexorable Entropy

Di Daniele D'Adamo - 18 Luglio 2025 - 12:00
Inexorable Entropy
Band: Escarnium
Genere: Death 
Anno: 2025
Nazione:
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77

Inexorable Entropy” è il quarto full-length di una carriera, cominciata nel 2008, dei brasiliani Escarnium, uscito a tre anni di distanza da “Dysthymia”. E quattro sono i componenti della band, che si allineano pertanto alla tradizione del thrash e del death metal sudamericano, che rispetta l’input primigenio fornito da band come i Sepultura, giusto per nominarne una non a caso.

E, a proposito, bisogna dire che Victor Elian, chitarra e voce, se la cava piuttosto bene nel cavalcare le linee vocali con il suo stentoreo growling. Il quale indirizza con decisione il mood dell’album verso il buio, l’oscurità, sì da dar vita a un blackened death metal dalla forma abbastanza personale. Del resto, Elian e compagni sono in giro da un bel po’ di tempo per cui è lecito aspettarsi una buona dose di professionalità, indirizzata in un’esecuzione senza pecche, accompagnata da una significativa propensione alla scrittura.

Oltre alla voce, si rivela fondamentale l’apporto delle chitarre, sia nella fase ritmica, sia in quella solista. Lo stesso Elian, assieme ad Alex Hahn, costruisce un muro di suono possente, duro come il granito, le cui molecole sono tenute strette, legate assieme e compresse da un riffing dal sapore thrashy che sonda le profondità della Terra (“Pyroscene’s Might“). Ove, chissà, alberga qualche mostro dormiente pronto a occupare l’anima di qualche persona.

La sequenza degli accordi è senza soluzione di continuità, realizzata in una forma complessa che però non indebolisce la linearità del sound. Mentre, contemporaneamente, la solista cuce orrorifici brandelli di carne umana in decomposizione. Resa tale dal tremendo picchiare della batteria di Nestor Carrera, spesso impegnata a divergere dai ritmi normali mediante furibonde, violentissime ondate di blast-beats (“Cancerous Abyss“); accompagnata dal mostruoso rombo tonante del basso di Gabriel Dantas per stordire quanto più possibile,

Così facendo cresce, se non una sensazione di paura, una forma d’inquietudine che non lascia scampo lungo tutta la durata dell’LP. Una visionarietà (“Fentanyl“, “Ashen Path“) che non sempre, anzi raramente, scaturisce in maniera così spontanea da un act che pratica il sottogenere death suddetto. Inquietudine, cioè ansia per un pericolo imminente che non si riesce a discernere e che aumenta esponenzialmente nel percorrere il cammino segnato dalle nove canzoni che compongono il platter.

Brano dopo brano, la furia demolitrice del combo di Bahia produce i suoi effetti sulle membrane timpaniche, facendole vibrare al massimo, sino allo sfinimento. Una situazione in cui la ricettività della mente aumenta per essere posseduta da un’entità assimilabile al sound tenebroso del disco, definito in ogni dettaglio dalla title-track ma anche, ovviamente, dagli altri singoli episodi. Fra essi, spicca “Through the Depths of the 12th Gate“, che fa fede alla locuzione latina nome omen. La poderosa avanzata del devastante stile dei Nostri spinge con forza la discesa, inarrestabile, nelle abissali cavità che si sviluppano sottoterra, quasi fosse una caduta vorticosa dell’anima negli inferi.

Più o meno le tracce offrono sul piatto la stessa pietanza così come sopra descritta. Il che può essere percepito come una eccessiva uniformità fra le tracce stesse, escludendo la sorpresa che si dovrebbe provare quando si passa da una all’altra. Questo può anche essere vero, tuttavia a mano a mano che si procede con i passaggi dell’insieme “Fentanyl / Pyroscene’s Might” detta sensazione tende a svanire estrinsecando così la natura di ogni singolo tratto.

Inexorable Entropy” è senz’altro un lavoro ostico, difficile da far proprio, complicato da metabolizzare. Gli Escarnium non sono emulatori di qualcuno né tantomeno dei poser. Anzi, come si è potuto vedere, vivono in un mondo tutto loro, fatto di cupa foschia nella quale si svolge l’immane tappeto di note intessuto con le idee che strutturano l’opera. Una nebbia fuligginosa nella quale è dolce abbandonarsi, se la pazienza non viene meno.

Daniele “dani66” D’Adamo

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