Recensione: Kata Ton Daimona Eaytoy

Di Tiziano Marasco - 1 Luglio 2013 - 0:58
Kata Ton Daimona Eaytoy
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Anno: 2013
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83

Secondo Aleister Crowley, padre dell’occultismo moderno, la storia umana è suddivisibile in tre eoni: quello di Iside, coincidente all’epoca preistorica, prevede la dominanza di religioni matriarcali e politeiste, è un periodo felice; l’eone di Osiride, corrispondente all’età antica e medievale, vede il passaggio a religioni patriarcali, per lo più monoteiste che inducono l’uomo ad umiliare sé stesso per raggiungere, tramite la sofferenza, uno stato di catarsi; viene infine l’eone di Horus, fusione dei primi due, in cui l’umanità comprenderà appieno la propria essenza, venererà un idolo bambino e saprà che la gioia si ottiene agendo secondo il proprio desiderio. Tutti faranno quello che vorranno. “Fai quello che vuoi” in greco si dice “kata ton daimona eaytoy”. E qui ci siamo, dato che il titolo dell’undicesima fatica del Cristo putrescente è una citazione esplicita al vecchio Aleister.

Continuando il parallelo Thelematico, possiamo tranquillamente dire che i Rotting Christ, nell’eone di Horus, sono entrati sei anni fa, quando ci hanno regalato quel capolavoro che è Theogonia. Non che i brutallari più famosi d’Ellade ne avessero un particolare bisogno, dato che la loro ventennale carriera li ha visti farsi pionieri di un genere, rinomati in tutta Europa e non solo, partendo da una terra che col metal non aveva mai avuto gran feeling – ma nemmeno col rock. Ma con la svolta di Theogonia i nostri avevano dato nuova forma alla loro arte, staccandosi dal black metal tout court per arrivare ad un nuovo stile, unico, personalissimo ed inconfondibile. Aealo aveva bissato le buone impressioni, spingendosi ancora più in là.

Ora è la volta, appunto, di Kata ton daimona eaytoy, un titolo che presenta assai bene, lo ripetiamo, gli intenti di Sakis & co, ormai avviati verso una sperimentazione marcata in campo estremo, sperimentazione che produce risultati affascinanti.

In linea di massima possiamo notare che in questo nuovo disco la componente chiave di più o meno tutte le composizioni è data dall’unione di musiche ossessive, spesso ripetute, e da strutture semplici ma assai atipiche. In tal senso la opener In Yumen – Xibalba (Xibalba è l’ade della mitologia Maya) si rivela splendido vaso di Pandora nel suggerire tutti gli elementi che caratterizzano il disco. Pezzo lungo, con progressivi cambi di ritmo, eppure priva di un vero e proprio ritornello. Chitarre taglienti e basi ripetitive (esattamente come nelle invocazioni alle ombre) producono una musica sì dura, ma che si vede, per struttura, non lontana da certo sludge o certo post metal. A ciò si aggiunge il particolare stile urlatorio di Sakis, più simile ad un rantolo soffocato che ad un vero e proprio scream.

Oltre a ciò, la parte vocale si fregia a sua volta di ossessive ripetizioni, in diverse lingue, composte da poche parole ripetute come in un anathema. Ne è un ottimo esempio la furente P’unchaw kachun – Tuta kachun (canto inca in onore del sole), laddove il ritornello è costituito da una sorta di coro epico in spagnolo, il che per altro torna utile a noi italiani dato che siamo in grado di capire e ricordare più facilmente tale passo. Stesso discorso si può fare nella successiva Grandis spiritus diabolis. Ma tutto il disco è da intendersi come un viaggio attraverso culture e lingue, spesso morte, diversissime tra loro. In tal senso è davvero impressionante Cine iube?te ?i las?, in rumeno, che di metal ha ormai ben poco. Si tratta di una ballata oscura e malatissima, dominata da due ospiti di eccezzione, Eleni e Souzana Vougioukli, la prima al piano e la seconda autrice di una performance vocale da brividi. Ormai ai nostri manca solo una collaborazione diretta con Diamanda Galas per poter riunire in un solo pezzo i vertici dello spiritismo acheo. Ma veramente Kata ton daimona eaytoy è un disco senza punti deboli, molto vario nella sua monolitica compattezza. Difficile scartare qualcosa, dalla gioiosa (se ci è concesso) Iwa voodoo alla truce Gilgamesh fino ad Ahura Mazd?-A?ra Mainiuu: i nostri snocciolano cinquantacinque minuti di ottima musica.

Insomma, a vent’anni da The mighty contract il Cristo putrescente si conferma come una delle realtà più importanti del panorama estremo, non solo in Europa. Una band mai banale né prevedibile, ancora lontana dall’aver perduto la verve giovanile, ancora l’ontana dal posarsi sugli allori, i Rotting Christ ci regalano una delle uscite più interessanti di questo 2013. Bene così, e siamo già in trepidante attesa di future evoluzioni.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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