Recensione: Kites

Di Germano "Jerry" Verì - 19 Gennaio 2022 - 11:41

This Winter Machine è un progetto di rock progressivo inglese nato nel 2016 ad opera di Al Winter, cantante e unico punto fermo di una line up della quale in 5 anni è cambiato tutto. Divennero noti al pubblico del prog già nel 2016 grazie al tour inglese di supporto ai Magnum (a proposito di grande musica senza tempo) di quell’anno. Dopo aver pubblicato due album, The Man Who Never Was (2017) e A Tower of Clocks (2019), la band torna con Kites, un lavoro tutto nuovo come nuova è la sua formazione. Per il compimento di questa terza uscita, Al Winter ha reclutato i due chitarristi Dom Bennison e Simon D’Vali, aggiungendo Alan Wilson alla batteria e Dave Close al basso.

Le prime idee del disco sono datate addirittura 2018, ma è solo con l’ingresso dei nuovi elementi che c’è stata l’accelerazione per arrivare alla sua uscita. I This Winter Machine non hanno cambiato di molto negli anni il proprio posizionamento stilistico: partendo dal progressive più sinfonico e magniloquente degli anni ’70, rivisto ed aggiornato con il neo-prog delle decadi successive, riescono a miscelare con personalità e gusto un viaggio musico-temporale comunque lungo, rifacendosi tanto ai Genesis quanto ai Porcupine Tree, tanto ai Rush quanto ai Pendragon, ma sempre in chiave decisamente melodica.

Apre le danze di questo Kites la breve strumentale “Le Jour d’Avant” con un intreccio struggente di piano e chitarra acustica, ad accomodare gli ascoltatori su poltrone di velluto e resettare orecchie e mente. Si parte davvero con la prima parte di “The Storm”, i cui messaggi di allarme si materializzano in un drumming tribale di Wilson a cui fa eco con analoga dinamica il basso di Close. Il brano sfocia in un tema ritmato e nervoso, successivamente annegato in un assolo dilatato ed etereo del chitarrista Mark Abrahams in pieno stile Gilmour. Non rompe l’incantesimo l’inizio della seconda parte di “The Storm”, con l’espressiva e malinconica voce di Al Winter accompagnata dall’acustica di Simon D’Vali. Ma la tempesta non è passata, il riffing riprende con intonso vigore, la sezione ritmica si avvolge su chitarra ed organo con equilibrio, l’assolo melodico finale di Dom Bennison scoglie i nodi e dissolve le nubi.

La successiva “Limited” è un raffinato e breve intermezzo strumentale, elegante e morbida nelle sue tastiere e chitarre liquide, tanto piacevole da lasciar delusi al suo repentino epilogo. Fortunatamente le emozioni continuano con “Pleasure & Purpose”, prima lenta ed appassionata, poi più dinamica, ma sempre intrisa di profonda malinconia. Un brano decisamente rappresentativo dei This Winter Machine e uno dei migliori del lotto. “This Heart’s Alive” non abbandona le atmosfere intime e riflessive, prima sottile poi armonicamente corale, misurata e sobria. Altro pezzo di grande classe compositiva.

L’intermezzo “Whirpool” suona decisamente più dinamico degli altri, un po’ hard rock retrò grazie all’Hammond e al riffing più serrato. Il piano romantico di “Broken” ci riporta su lidi sognanti, la prova vocale e strumentale complessiva impacchettano e consegnano una ballad rasserenante. Ospite illustre di “Sometimes” è Peter Jones (Camel, Tiger Moth Tales), un brano positivo e splendente come una giornata di sole, dai tratti folk costruiti dall’accompagnamento acustico e l’acuto seducente del violino. Un brano tanto distante dalle introversioni nostalgiche di alcuni dei precedenti, segno evidente della capacità della band di trasferire vari aspetti della sfera emozionale.

La tempesta è decisamente alle spalle quando prende entusiasmo la finale “Kites”. Gioiosa e luminosa, è senz’altro la canzone più “semplicemente” rock dell’album, dannatamente efficace nel suo ritornello, spiccatamente neo-prog nelle melodie delle sue tastiere e Rush-oriented nella sezione ritmica e chitarre. Anche l’ultimo brano conferma la qualità compositiva di Al Winter e dei suoi compagni di viaggio, di una band dall’amalgama invidiabile (altro che assemblato posticcio) anche nei contributi dei musicisti più estemporanei. Ad esempio, pur non potendo usufruire del contributo di un tastierista in pianta stabile nella formazione, è notevole il lavoro dei vari ospiti dietro questo strumento, in particolare del più coinvolto Pat Ganger-Sanders (Drifting Sun), compositore tra l’altro dell’ottima opener.

Pur non varcando soglie musicali inesplorate, pur senza fare nessuna avanguardia, il grande merito dei This Winter Machine sta nella capacità di dare organicità ed interpretazione personale ad elementi che presi singolarmente suonerebbero in chiave puramente derivativa. Giunta ormai al terzo lavoro di qualità, è bene tenere d’occhio anche questa band come avviene già per altre e più note conterranee: i presupposti perché possa continuare a generare musica in grado di regalare emozioni, trascendere confini ed epoche, ci sono tutti.

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Genere: Progressive 
Anno: 2021
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