Recensione: Land of Lost Voices (噤夢 )

Di Elisa Tonini - 23 Marzo 2021 - 8:30

Nella scena metal di Taiwan soffia spesso un orgoglioso spirito locale, più notoriamente nei Chthonic (閃靈) ma anche in band come Bloody Tyrant (暴君) e nei presenti Crescent Lament ( 恆月三途 ). Fondati nel 2007 la band pubblicò – dopo un EP ed un demo – il primo album “Behind the Lethal Deceit”(2011) ma è con il secondo album “Elegy For The Blossoms” (2015) che viene definito uno stile ben più personale, fatto essenzialmente di un symphonic/folk metal dalle tinte decadenti. Il successivo “Land of Lost Voices”, terzo full-lenght uscito a fine 2020, elabora questa direzione stilistica.

Il nuovo album dei Crescent Lament riprende la storia da dove è terminata quella di “Elegy for the Blossoms”, concept-album che grossomodo vedeva la geisha taiwanese A-hiong (personaggio inventato) separarsi dal suo amato Bîng-hong a causa di travagliati eventi storici e sociali collocati dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se in quel disco si percepiva la dolorosa ed ineluttabile fine di un’amore che pareva predestinato, in “Land of the Lost Voices” si vede un inatteso ricongiungimento tra i due innamorati, uno spiraglio di luce nel Taiwan sotto il controllo cinese sfociato nel tremendo 228 Incident del 28 febbraio 1947 .

Di riflesso, il loro symphonic/folk metal assume qui un carattere più potente e corpulento, effetto voluto spostando l’attenzione su accelerazioni death metal melodico ed epicità power. Vi è poi una maggiore cura in fase di scrittura e dell’esecuzione, riversata in canzoni strutturalmente mutevoli e contemporaneamente a loro modo spontanee, in cui si denota grande perizia tecnica e ricercatezza negli arrangiamenti. Il tutto è legato ed arricchito da vari strumenti tradizionali giapponesi e cinesi su cui risalta l’erhu, un autentico protagonista dell’opera grazie al suo virtuosismo dinamico e spettrale. Questi elementi sono indispensabili nel ricreare l’atmosfera dell’epoca, fungendo all’occorrenza da espedienti narrativi. Quando serve, l’intervento del pianoforte – oltre che del synth- dona un colore trasformista ai pezzi, assecondando un respiro gotico.
La soprano Mauer Chou (affine qualsivoglia a Sharon Den Adel ) dà prova di un cantato – in lingua taiwanese – più sicuro nella performance, incantando con splendide linee vocali sfumate ma piene ed occasionali arditi slanci teatrali ( si veda “Another Night of Solitude” e “Ominous Shadows”).
Oltre a maestosi cori quando serve le si accosta un abrasivo growl maschile, elemento che si pone in modo complementare alla cantante, risultando allo stesso tempo estremamente armonico. Eccellente il modo in cui entrambe le voci si integrano nella caleidoscopica trama dei pezzi, giudicabili – a parte un paio di sbavature – tutti di alta qualità.
Nella fattispecie risaltano ulteriormente “Ominous Shadows”, “Empty Dream” e “By the Lone Light”. La prima (similmente ad “Another Night of Solitude”) è forse il brano migliore del disco grazie ad una marzialità teatrale e battagliera che esprime perfettamente il senso di dramma e terrore. “Empty Dream” verte su toni relativamente fiabeschi e romantici attraverso melodie “catchy” ma che in realtà esplode in abrasivi sottotoni dal sapore grezzo. L’apocalittico ed avvincente singolo “By the Lone Light” travolge  per via dell’arcigno suona, per alcuni passaggi resi avventurosi dalle percussioni e per il breve duettare tra Mauer e la voce maschile in clean.

Quanto alle “sbavature” sopracitate, si possono trovare vagamente nel pezzo più morbido del disco, “Frosty Flower at Dawn” ed in “Vortex of Collapse”. Nel primo caso sembra esserci qualche similitudine con alcune parti di “My Immortal”(band version) degli Evanescence, altrimenti per pathos ed intensità sarebbe da annoverare fra i punti alti del lotto.
Anche l’attacco di “Vortex of Collapse” può avere un’idea di già sentito ma andando oltre questo abbiamo un favoloso turbine dominato dagli straordinari assoli dell’erhu.

L’intro “Gnawing Nightmare”, “Where Ashen Moonlight Shines” e l’outro “Tides of Time” si staccano dalla componente metal ma rimangono estremamente coerenti con l’atmosfera generale. C’è un lato molto cinematografico se vogliamo, percorso da melodie e linee vocali femminili disperse negli echi del tempo.

Con “Land of Lost Voices” i Crescent Lament ci propongono un lavoro complessivamente di ottima fattura e di un’eccellente produzione che esalta tutti gli elementi.
L’uso dell’erhu, degli strumenti tradizionali ed alcune scelte stilistiche possono ricordare “Takasago Army” e “Bu-Tik” dei loro connazionali Chthonic (sensazione che potrebbe essere giustificata anche dalla presenza del chitarrista Jesse Liu in fase di registrazione e produzione) ma i Nostri denotano una personalità spiccata, espressa qui con talento e passione. Un incoraggiamento nel migliorarsi sempre e nel rinnovarsi senza snaturarsi. Per i fan di Epica, Nightwish e Within Temptation e per quelli del folk metal in generale.

Elisa “SoulMysteries” Tonini

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