Recensione: Lovehunter

Di Abbadon - 27 Agosto 2004 - 0:00
Lovehunter
Band: Whitesnake
Etichetta:
Genere:
Anno: 1979
Nazione:
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86

Secondo vero album del serpente bianco, dopo il mini “di presentazione” “Snakebite” e il vero e proprio esordio “Trouble”, “Lovehunter” è probabilmente a tutti gli effetti il primo, vero, passo fondamentale del sestetto capitanato dal vocalist David Coverdale. Registrato al Clearwell Castle e mixato ai Central Recorders studios di Londra, il platter esce nel 1979 e vede diverse evoluzioni stilistiche rispetto al già buon predecessore, mantenendo però quelle basi che sembravano aver catturato una buona fetta di pubblico. Rimane quindi la forte, fedelissima e mai stancante influenza blues, ritmo allo stato puro, accoppiata però a delle sonorità rock ben più grintose e possenti di quelle di Trouble (e che si intensificheranno ulteriormente con le produzioni a venire). La lineup è ancora quella originale, costituita dal già citato Coverdale, al quale si uniscono Jon Lord, le due 6 corde Micky Moody e Bernie Mardsen, il basso di Neil Murray e la batteria di David Dowle, che lascerà il combo (tornando nella Ian Gillan Band, suo ovile, c’è chi dice per seguire i suoi istinti e c’è chi dice allontanato dalla David, che voleva ulteriormente aumentare la carica ritmica dei suoi lavori futuri) poco dopo l’uscita sul mercato del nostro album e venendo rimpiazzato dell’ex Purple Ian Paice. Seppur andato, economicamente parlando, fra alti e bassi, “Lovehunter” si dimostra veramente un grande disco, a mio parere il migliore studio album di tutto il primo periodo dei Whitesnake fino a “Saint and Sinners” (sono i miei due album preferiti della band), venuto 3 anni dopo (anche se tanti reputano “Ready an’ Willing” il miglior capitolo del primo serpente bianco). L’aver tenuto intatto il nucleo dei musicisti non fa altro che far accrescere l’affiatamento fra di essi, che si fondono in un tutt’uno di sorta senza pecche, complice anche la loro splendida forma (in primis i due chitarristi). Come già accennato, la proposta musicale è quella che era stata tracciata in Trouble, farcita però con molto più dinamismo e sonorità maggiori. I temi lirici si stanno spostando e sono intuibili fin dal primo sguardo alla copertina, ma sarebbe limitativo fermarsi qui, poiché si perderebbe almeno un buon 60 percento delle emozioni che Lovehunter può creare e sa dare. Ci pensa subito la magica “Long Way from Home” a spazzare eventuali dubbi. Questo caldo mid tempo ci accoglie davvero nel migliore dei modi, con una sensualità ma nello stesso tempo con una classe senza pari. David si dimostra subito in uno stato eccellente, perfettamente a suo agio con tutti gli strumenti, ed interpreta magistralmente una delle più coinvolgenti e, in sostanza, migliori tracce dell’album, partendo dalle singole strofe, passando per i coinvolgenti ritornelli, presentanti fra l’altro degli efficacissimi coretti e  arrivando ad un gran bell’assolo. Dopo una simile accoglienza si potrebbe pensare ad una caduta di tono : e invece no, perché ci troviamo subito di fronte uno dei massimi classici dei primi Whitesnake, la celebre “Walking in the Shadow of the Blues”. Dichiarazione d’amore del vocalist verso la sua musica preferita, Walking sarà destinata a diventare uno dei grandi classici live del serpente bianco, il che la dice tutta sulla qualita della canzone, ritmata e pomposa ma semplicemente affascinante nel suo complesso. Molto più lenta e melensa delle precedenti è la terza “Help me Thro’ the Day”, discreto intermezzo che secondo me, però, abbassa un po’ la qualità delle composizioni (oh non è colpa dei Whitesnake se hanno messo 2 mezzi capolavori ai primi due posti della tracklist). Il cantato è molto caldo e struggente, e dominano soprattutto il basso e una piangente chitarra, con Lord che si occupa principalmente delle rifiniture sullo sfondo (cosa che farà anche in altre canzoni, aspetto in cui è geniale ma che secondo me non gli rende appieno giustizia). Riff estremamente Rock ed anche estremamente carico quello che introduce e trascina “Medicine Man”, brano non veloce ma decisamente incalzante. Fra i componimenti più tosti del lotto, Medicine Man mi ricorda un po’ una “Callin’ Doctor Love” un tantinello più “secca”, meno “ondulata” ma altrettanto coinvolgente del brano dei Kiss, sempre se mi permettete l’astruso paragone. Altro grande giro, veloce, ballabile e scanzonato, quello di “You’n’me”, che ha dalla sua delle splendide backing vocals e una perfetta ripartizione delle operazioni fra i due chitarristi, che fanno i diavoli a quattro senza tuttavia perdere la classe e l’inquadratura nel contesto musicale suonato. Velocità per velocità si prosegue con l’ancor più sparata “Mean Buisness”, pezzo più scanzonato del precedente, già non leggero. In grande risalto Murray e Dowle, che tengono saldissime le redini ritmiche, una freccia Coverdale, un po’ più in ombra le chitarre, la scena è dominata dal letteralmente strabordante Lord, il quale ci regala un assolo che dovrebbe far ricordare il suo posto fra i grandissimi degli anni settanta e dell’hard rock in generale. Non c’è tempo per riposare (sono pochi gli spazi morti di questo prodotto) perché dopo la secca fine di Mean Buisness è in dirittura d’arrivo il secondo grande classico dal vivo presente su Lovehunter, che la titletrack. Abbiamo un ritorno a ritmiche più pacate, anche se discretamente rapide, si mantengono le costanti del bel suonato (che va a potenza alternata, fattore a mio avviso alla lunga stancante) e del cantato ispiratissimo, forse fra i migliori (anche se ci sono state tante dimostrazioni della bravura di Coverdale) dell’album. Non rimane molto da dire che non sia stato già detto, da segnalare un buon assolo. Meno bella delle precedenti l’ottava “Outlaw”, forse per il fatto che mi lascia a tratti spiazzato. Dotata forse della più grande introduzione fra quelle ascoltate finora, la track mi scade parecchio nelle strofe, che proprio non riescono a prendermi (e probabilmente necessitano di più ascolti), per poi risollevarsi bene nei rotondi e ben interpretati ritornelli. Boh, lascio ai posteri l’ardua sentenza e passo alla bella “Rock’n’Roll Women”, dal testo intuibile e dalle grandi linee musicali. Splendidi anche in questa sede il lavoro del duo Moody-Mardsen e l’intesa fra questi due e Jon Lord. Ancora il tastierista (e in questo caso pianista) protagonista nell’ultima, magistrale “We wish you well”, mini ballad estremamente toccante che però è troppo breve, solo un minuto e mezzo, che però non pregiudica la pelle d’oca che mi viene durante l’ascolto, un commiato fatto con uno stile così diverso da quello sentito finora eppure così bello, fiabesco. Sono quasi senza parole, io non sentivo più questo prodotto da un bel po’ di tempo, e devo dire che ero partito con l’idea di dargli un giudizio sì ottimo, ma non come quello che sto per appioppargli. Benchè conosca piuttosto bene questo disco, è incredibile come riesca ancora a stupirmi, è davvero il mio preferito dei Whitesnake, alla pari con Saints and Sinners, per quanto riguarda i dischi in studio fatti da Coverdale e soci. Peccato per alcuni tratti sinceramente non all’altezza, sennò sarei stato ancora più alto, in ogni caso chapeaux per quest’altro grandissimo album di hard-blues rock.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Long Way From Home
2) Walking in the Shadow of the Blues
3) Help me Thro’ the Day
4) Medicine Man
5) You’n’Me
6) Mean Buisness
7) Love Hunter
8) Outlaw
9) Rock’n’Roll Women
10) We wish you well

 

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