Recensione: Men Of Honor

Di Roberto Gelmi - 23 Febbraio 2014 - 14:39
Men Of Honor
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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65

A quasi due anni di distanza dal mediocre “Omertà”, e dopo la trovata commerciale dell’EP “Covertà”, la “Mafia dell’Adrenalina” torna sulle scene con il suo secondo studio album, “Men of Honor” (traduzione letterale dell’italiano “Uomini d’onore”). Ennesima copertina inguardabile, che rilegge lo stereotipo gangsteristico italo-americano con ironia nera anglosassone (qualcuno sa chi è il dentista di questi scheletri ben dentati?), ma pesa l’assenza in line-up di Mike Portnoy, che ha abbandonato il combo lo scorso giugno.

Il supergruppo statunitense lo rimpiazza con A. J. Pero (ex-Twisted Sister) e s’affida ancora una volta all’ugola d’oro di Sir Russell Allen e, in misura minore, ai funambolismi di Mike Orlando.
Il risultato è un disco leggermente inferiore al precedente, che convince nelle parentesi semiacustiche e melodiche, ma delude per originalità. Mancano, poi, le finezze alla batteria di Portnoy (pensiamo al drumwork in “Believe Me”) senza contare che, dopo un debutto, l’effetto sorpresa è ormai poca cosa. Suonano, dunque, un filo sconfessabili le parole di Allen circa il nuovo platter: «We kept the integrity of what Adrenaline Mob sounds like, but we pushed the boundaries a little bit too» (“abbiamo mantenuto l’integrità del sound degli Adrenaline Mob, ma abbiamo spinto i confini anche un po’ oltre”).
I Mob, l’hanno confermato più volte, danno il meglio in sede live; di conseguenza compongono brani spesso pensati per avere un grande impatto dal vivo. I primi sessanta secondi dell’opener “Mob is back” sono in tal senso un biglietto da visita invidiabile: una vera esplosione sonora catapulta l’ascoltatore dritto nel sound groovy e “bastonato” del gruppo statunitense. Francamente non avrei mai sperato in un attacco così convincente e risoluto al punto giusto. Il sound della band sembra essere rimasto invariato rispetto a quello del 2012: qualche timida sovraincisione nell’assolo di Orlando e parti di batteria prive della genialità di Portnoy, ma non meno azzeccate.
“Come On Get Up”, il cui lyric-video ha iniziato a circolare in rete già a fine 2013, è un brano dalla ripetitività magnetica e ossessiva (il refrain, purtroppo, vi s’inchioderà nella memoria per mesi). Palm mute e armonici catchy a iosa: Orlando sciorina uno dei suoi assolo pieni di fronzoli (il peggiore resta, però, quello in “Psychosane”). Qualche sbadiglio scappa e a svegliarci arriva l’inizio in crescendo di “Dearly Departed”, con il basso pulsante di John Moyer (Disturbed) e un ritornello orecchiabile (con controcanti d’ascendenza AOR); alla fine del brano, due spari inquietanti lasciano l’ascoltatore un po’ perplesso.

“Behind These Eyes” è la prima ballad del platter e conferma quanto di buono composto dai Mob meno aggressivi, penso a “All on the line” e “Angel Sky” in “Omertà”. Inserti acustici, linee di basso corpose e un Allen d’applausi. “Let It Go” è un filler, per certi versi accomunabile a “Come On Get Up”. Allen calca troppo la parte, risultando quasi irritante.
Con la successiva “Feel the adrenaline” le cose non migliorano: si tratta di un brano fin troppo autoreferenziale. Orlando spiega, non con una certa ironia, che nel testo della canzone «There’s the double entendre of a beautiful girl and the car too. It’s whatever gets you revved up”. […] You could call that song ‘Adrenaline Mob’. It’s a staple of the band’s heavy sound» (“c’è una doppia allusione a una bella donna e a un’automobile. È tutto quanto ti manda su di giri […] Si potrebbe chiamare questa canzone ‘Adrenaline Mob’. È un punto fermo del sound heavy della band”). Alcune buone sonorità bluesy, l’ombra di Ozzy Osbourne presente più che mai, e il bello stacco di basso al min. 4:55 non sono sufficienti per premiare un brano troppo monotono.

È la volta della title-track “Men Of Honor”, che inizia con un atmosferico intro semiacustico per poi riproporre il solito sound a metà tra thrash e heavy. Il titolo nasce da una proposta del padre di Orlando (come ‘Dream Theater’ fu suggerito da Howard Portnoy). Il chitarrista aggiunge che: «The message is to stand strong with Adrenaline Mob. Regardless of what’s changed, we are men of honor, and we will honor this entity until we die» (Il messaggio è di fare fronte comune con gli Adrenaline Mob. Nonostante quanto è cambiato, noi siamo uomini d’onore e onoreremo questa entità finché vivremo). Cieca dedizione o vuota retorica?
“Crystal Clear” è la seconda, atmosferica, ballad del full-length. Allen canta e incanta, Orlando suona con la giusta sprezzatura e anche la parti di basso danno un tocco di personalità al pezzo. Niente di che, invece, “House of Lies”, brano che parla di uno strip club e della (finta) felicità che vi regna a pagamento. Traccia intrisa di rabbia e sano sfogo vocale da parte del cantante dei Symphony X. Forse si poteva fare meglio, il tema è caldo quanto basta, ma i Mob si limitano a comporre un brano tirato non troppo originale.

“Judgement Day” è tra le composizioni peggiori dell’album. Intro alla Metallica, ma Allen attacca in modo inascoltabile, quasi autoparodia di se stesso. È un cantante melodico, non thrash, ma pare proprio non farsene una ragione. Orlando spara a mille un altro assolo fotocopia e il brano termina tra fischi della sei corde e un sussurrato imbarazzante.
“Fallin’ to pieces” chiude il platter. Si tratta, a detta di Allen, di «‘a tell it like it is’ song» (una canzone narrativa), che ricorda le vittime in New Jersey e Staten Island (una delle cinque circoscrizioni di New York City), durante l’uragano Sandy dell’ottobre 2012. Il brano potrebbe aspirare a chiudere positivamente il disco: è una ballad orecchiabile, intrisa del giusto pathos, ma non ci riesce completamente. Colpa principale è l’orribile delay a scatti, che nelle prime strofe dovrebbe rappresentare lo sconquasso causato dal ciclone: scelta davvero poco azzeccata.
Nella deluxe edition del disco figura una bonus track, “Gets You Through The Night”, e un bonus disk con i brani di “Covertà”.

Gli Adrenaline Mob non sembrano intenzionati a spiccare il volo, si confermano fissati come non mai, invece, nello stereotipo della loro proposta musicale di «rock ‘n’ roll mafia». Si sentono un gruppo adrenalinico e “tamarro”, con un sound tra il groovy, l’hard rock e l’heavy metal,  e così devono suonare per forza di cose, un po’ come fossero la colonna sonora dei peggiori Soprano. Un minimo di ecletticità la ritroviamo nelle ballate “Behind These Eyes”, “Crystal Clear” e “Fallin’ To Pieces”, momenti migliori del full-length. Per il resto tanta monotonia e poche idee interessanti. La nuova sezione ritmica del gruppo americano non sfigura rispetto a quella del debutto: non ci sono i fills portnoyani, ma ci pensa l’impeccabile basso di John Moyer, convincente tanto nelle ballad quanto nelle parti thrash, a mantenere i ritmi sostenuti. Allen non regala emozioni come nel progetto con Lande; Mike Orlando sembra aver capito di limitare le stravaganze chitarristiche più inutili e irritanti, ma risulta ancora troppo tecnico e vicino a certi echi “wyldiani” e alla Pantera. La produzione, tuttavia, è ottima; anche per questo, non ci sentiamo di bocciare del tutto “Men of Honor”.

Di certo, però, non ne consigliamo l’acquisto a chi vuole riservare i propri averi per album decisamente più convincenti e emozionanti.

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