Recensione: Metal Division

Di Fabio Vellata - 12 Gennaio 2020 - 15:59

Non sono sicuramente grandi guizzi d’originalità quelli che ci si potrebbero attendere da un nuovo album dei teutonici Mystic Prophecy, band di tradizionalissimo heavy che manda a memoria sin dagli albori del nuovo millennio una ricetta musicale inossidabile e consolidata.

Dieci album in vent’anni: una media oltretutto costante che dichiara come il gruppo guidato dal singer Dimitri Liapakis confezioni album secondo un metodo preciso e scrupoloso, attenendosi a formule dotate di poche variazioni, capaci però di conservarne intatto il fascino al cospetto del buon numero di fan raggranellati nell’arco di una carriera comunque dignitosissima e rispettabile.
Poche concessioni all’inventiva come detto e come dichiarato programmaticamente sin dagli esordi. Un disco dei Mystic Prophecy è, al pari di tanti altri eroi che popolano l’immaginario delle scene heavy metal tedesche, come una rimpatriata tra amici. Temi arcinoti, argomenti sempre fedeli a se stessi, atmosfere che non cambiano praticamente mai.
Tutto sommato, una confortevole sensazione di routine che non ammette sorprese ed offre un canovaccio stilistico cristallizzato.
Un limite per molti, spesso tediati all’idea di ascoltare un qualcosa di immobile, frutto di un songwriting ripetitivo ed incapace di cambiare. Per altri – forse una minoranza – un motivo invece di rispetto, allorquando termini quali coerenza ed affidabilità permangano tra gli aspetti prediletti nell’apprezzare la proposta espressa da un gruppo heavy.

E proprio la coerenza è la base fondante su cui si erige questo ennesimo capitolo forgiato dai Mystic Prophecy, dal titolo – quanto di più emblematico si possa trovare – di “Metal Division”.
Detto con onestà e senza perder troppo tempo: come spesso accaduto, nulla di impressionante nemmeno questa volta. Però – diamo atto alla band di Bad Grönenbach – fatto molto bene.
Produzione potente, suoni massicci, chitarre fiammeggianti e ritmiche serrate: german heavy power allo stato puro che come sempre mette in fila Primal Fear, Sinner, Dream Evil e Grave Digger a corredo di una voce tra le più convincenti del settore e di un lotto di brani ultra heavy con qualche pennellata thrash che riescono il più delle volte a divertire e risultare gradevoli.

 

Non ci sono valori estremi, la struttura compositiva è convenzionale ed assolutamente classica, il livello mediamente buono, con qualche piccola punta spinta un po’ più in alto.
Non potrebbe essere altrimenti del resto, quando la partenza è a carico di un brano come la title track: mid-tempo granitico con suoni di chitarre rombanti e cadenze inesorabili. Se ne sono ascoltate già a centinaia di canzoni simili, ma è sempre, dopo tutto, un bel sentire.
C’è anche un minimo di varietà tra tempi rallentati e pezzi più “fast”, va tuttavia sottolineato come il territorio in cui i Mystic Prophecy rendono meglio è proprio quello delle cadenze “medie”: “Hail to the King”, “Here’s come the Winter”, “Reincarnation” e “Mirror of a Broken Heart” sono tutti, uno per l’altro, momenti ben assortiti e di discreta qualità.
C’è poi l’inconsuetudine di una traccia come “Dracula“, insolito pezzo dal taglio piuttosto orecchiabile che pur mantenendo una linea assolutamente heavy sfocia in un ritornello anthemico (con tanto di chitarrone alla Zakk Wylde) che potrà avere discreta efficacia sulle assi del palco.

Prova per nulla negativa insomma per questo emblematico gruppo di alfieri del german power, capaci dopo quattro lustri di onorata ed oscura militanza di sfornare quello che potrebbe forse ottenere la palma del loro miglior disco in carriera.
Il piatto servito è sempre quello. Ma come capita nella più classica trattoria per camionisti, si tratta comunque di roba gustosa, con ingredienti semplici che però, pur se conosciuti e frequentati più volte fa sempre molto piacere riassaporare.

 

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