Recensione: Old Star

Di Gianluca Fontanesi - 2 Giugno 2019 - 15:46
Old Star
Band: Darkthrone
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2019
Nazione:
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68

Il nuovo disco dei Darkthrone, che esce tre anni dopo il valido Artic Thunder, vuole essere un tributo agli anni ’80 in tutto e per tutto ed è lo stesso Fenriz a confermarlo in svariate dichiarazioni. I testi sono tutti opera sua e, partendo dalla produzione fino alla costruzione dei pezzi, si spazia un po’ per diverse sonorità metalliche e non in grado di ricordare un’ampia gamma di mostri sacri come Hellhammer, Celtic Frost, Candlemass, Cathedral e anche una spruzzata di Nwobhm nelle parti più melodiche e dedicate agli aspetti più solistici.

Attitudine, la chiave di volta dei Darkthrone è sempre stata questa e non ci sono mai state fortunatamente varianti; il sound invece nel corso degli anni è sempre stato mutevole ma mai fine a se stesso e mai svenduto alle correnti del black più in auge del momento. Fenriz e Nocturno Culto sono sempre stati un modello di coerenza sia nel presente che nel guardare al passato, e non hanno mai deluso.

Old Star sembra quasi un’ode al dado o un sonetto per il ragù; gli endecasillabi qui però non sono ammessi e i sei pezzi offerti dal duo norvegese sono aperti a tutto tranne che al compromesso.  I Muffle Your Inner Choir apre le ostilità rivelandosi una cavalcata con un tiro micidiale e la voce di Nocturno Culto va ad inserirsi in maniera abrasiva e convincente. Ci sono gradi riff in Old Star ed ne veniamo a conoscenza fin dalle sue prime note; il pezzo poi cambia umore nella sua parte centrale e arriva quasi ad essere doom, struttura che si ripeterà svariate volte nel corso della tracklist con risultati sempre vincenti. Si torna ad accelerare nel finale e si chiude in maniera live. The Hardship of the Scots è uno dei migliori brani del disco e alla lunga è quello in grado di dare più soddisfazioni all’ascoltatore: parte con un hard rock “scanzonato” e diventa quasi subito lugubre e palustre; l’alternanza di questi due stili funziona benissimo e si impone in maniera scorrevole e con la giusta sporcizia. Il break centrale è il momento più carico ed esaltante dell’intera opera e a volumi sostenuti diventa un connubio letale; l’apertura ariosa è poi la ciliegina sulla torta che consegna alla storia un brano grandioso.

La titletrack, che di solito dovrebbe essere un brano di punta, qui risulta invece come un anello debole e meno articolato rispetto alle altre composizioni; parliamo di un pezzo lento e dall’ottimo break centrale, che però è reo di concludersi troppo presto in maniera brusca e lascia l’ascoltatore, che si aspetta un ulteriore sviluppo, in sospeso e con l’amaro in bocca. Alp Man è un brano con un riffing che pesca sempre dal doom e questa volta si va a scambiare di posto con accelerazioni più black; la voce rimane monocorde e distruttiva e non ha mai momenti di calo. Nel ponte si entra poi di prepotenza nel doom nudo e crudo e sulle note più alte una qualche armonizzazione di chitarra non avrebbe di certo stonato; ne spunta una sul finale che non è quel gran ché e ci fa desistere dall’esprimere ulteriori desideri.

Duke Of Gloat è il secondo e ultimo brano veloce di Old Star e risulta parecchio somigliante nella strofa alla opener; più potente e più black invece il ponte, che sfoggia un gran riff e quando accelera è assolutamente devastante. Come nel brano precedente, il suono scelto per la seconda chitarra che esegue le note alte è pessimo e fastidioso, si sarebbe potuto tirarne fuori uno migliore. I Darkthrone si fanno però perdonare con una parte finale da manicomio e vissero tutti felici e contenti. The Key Is Inside The Wall chiude le ostilità rallentando solo in apparenza; presto si fomenta il tutto con un’ottima progressione di accordi e un piglio punk che dona il giusto livello di ignoranza. Si rallenta e si accelera con piacere e il finale è puro granito.

Old Star è un buonissimo disco ma non ottimo; ovviamente non siamo qui per chiedere un secondo Panzerfaust e non ne abbiamo nemmeno le pretese, si sarebbe però potuto fare di più in alcuni frangenti. Il disco offre sicuramenti più momenti doom che black e, per forza di cose, risulta alla lunga ripetitivo e non ha di certo una vita lunga come un potenziale classico. E’ un prodotto piacevole ma è anche ciò che ti aspetti dai Darkthrone, né più né meno; per noi risulta un pelino sotto Arctic Thunder, che abbiamo trovato più ispirato e meno compiacente. In questo giro di giostra della Norvegia che conta possiamo sicuramente considerarlo come il disco migliore, la palla ora va ai Mayhem.

“Non ho visto quel film (Lords Of Chaos, Ndr), non ho visto neanche Until The Light Takes Us. Quel film non è per me. Se le persone volessero conoscere il black metal dovrebbero invece ascoltare The Return dei Bathory. Tanto, anche.”  Fenriz

 

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