Recensione: Pandaemonium

Di Fabio Vellata - 28 Aprile 2018 - 0:01
Pandaemonium
Etichetta:
Genere: Stoner 
Anno: 2018
Nazione:
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83

Quando si parla di talenti di casa nostra in ambiti rock e metal, si tende talora a dimenticare quanto di buono negli anni ha saputo produrre la penisola in un sottogenere peculiare ed a se stante come lo stoner, settore miracolosamente prolifico e caratterizzato da un livello qualitativo spesso teso verso l’alto, a significare come i suoni lisergici, ipnotici, distorti e psichedelici in chiara reminiscenza seventies, da queste parti abbiano spesso trovato un domicilio accogliente ed ospitale.

Tra le punte di diamante del movimento, i romani Black Rainbows rappresentano senza ombra di dubbio una sorta di faro “guida” nell’ecosistema tricolore, in virtù di una militanza decennale e di una produzione di album benedetta da una costante rincorsa verso l’alto. Un susseguirsi di dischi marchiati a fuoco dalle visioni allucinate del leader e fondatore Gabriele Fiori, padrone di una ricetta stilistica capace di fondere all’unisono Black Sabbath, Kyuss, Monster Magnet e Fu Manchu, con una somiglianza “netta” nei confronti di questi ultimi a volte ben più che evidente. Non al punto tuttavia, da apparire troppo ponderosa od ingombrante: sempre cioè, amplificata da dosi di personalità propria che, esaltando alcuni aspetti più suggestivi, onirici e visionari, ha saputo costruire – oltre alle consuete corse a perdifiato in skate o su potenti bolidi dai motori elaborati – immagini talora stordenti di dimensioni aliene, incubi cosmici e mondi paralleli.

Come una maestosa cattedrale avvolta nel buio di una notte millenaria, anche il nuovo “Pandaemonium” reca con se, sin dalla “lovecraftiana” cover, un fascino ancestrale e fuori dal tempo, elaborazione di un connubio in cui energia e “fegato” vanno di pari passo con fantasia ed immaginazione. Da un terreno tanto composito, sgorgano spontanee melodie non sempre rettilinee, caratterizzate da divagazioni strumentali che come un’immane trip di suoni avvolge, soffoca ed ottenebra, trascinando in una realtà fuori da ogni canone in cui le ombre si allungano, i tempi si dilatano ed i colori impazziscono. 

Potenza dello stoner. Quello buono.
Quello che da vita ad esempio, ad un brano come “Sunrise”, mescolanza tra Fu Manchu ed Orange Goblin con tanto di sontuoso cambio di tempo centrale e chitarrone ultra-ribassate a far tremare qualsiasi cosa ne propaghi il suono.
Oppure le terremotanti “High to Hell”, “The Abyss” e “Riding Fast Till The End Of Time”, ennesimi stralci di un ibrido tra Fu Manchu e Kyuss, in cui gli arrangiamenti secchi e dinamici della sezione ritmica (molto bravo il nuovo drummer Filippo Ragazzoni) fanno da sfondo al consueto florilegio di riff torrenziali.
C’è spazio pure per l’odore di zolfo tipico dei Black Sabbath in un brano come “The Sacrifice”, sventagliata di stoner appesantito da qualche tonnellata di piombo in cui la voce di Fiori sembra voler davvero ricordare quella del leggendario Ozzy.

I Black Rainbows sanno però incutere vivo timore quando vanno ad inerpicarsi verso l’onirico di brani quali “Grindstone”, “I Just Wanna Fire” e “13th Steps of the Pyramid”, suite diaboliche che viaggiano tra estensioni interstellari ed allucinazioni esoteriche, in cui misteriose ed aride pietraie di qualche assurdo pianeta inesplorato fanno da scenario a divagazioni strumentali che avvinghiano e stordiscono, mandando definitivamente in tilt la percezione della realtà.

È davvero bello immergersi nei viaggi mentali proposti dai Black Rainbows: un’escursione verso l’ignoto che talora si presenta come una scorribanda in un assolato giorno californiano ed altre volte trascende in un universo di inquietanti digressioni cosmiche.

Con un unico comune denominatore: quello del fascino infinito di una musica dalle mille sfumature, amministrata da una band che, ancora una volta, si dimostra assoluta maestra del genere.

 

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