Recensione: Pills Against the Ageless Ills

Di Daniele Balestrieri - 17 Ottobre 2004 - 0:00
Pills Against the Ageless Ills
Band: Solefald
Etichetta:
Genere:
Anno: 2001
Nazione:
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86

Furia, passione ed estremismo sono la chiave di volta del duo più eclettico dell’avantgarde black metal, quel duo che dal 1995 è stato in grado di sfornare alcuni dei prodotti più peculiari e stupefacenti dell’intero panorama musicale scandinavo. Molti ne parlano, eppure pochi conoscono davvero le contorsioni musicali di Lazare e Cornelius, da subito saltati all’attenzione del grande pubblico grazie all’ottimo Linear Scaffold, un esempio abbastanza greve di quanto può essere portata ai limiti la musica senza perdere la propria identità. E c’è poco da fare, anche se hanno sempre subito alterne fortune, i Solefald sono stati tra gli iniziatori di quel movimento soprannaturale che ha portato alla creazione di monumenti di genio come The Sham Mirrors o il leggendario La Masquerade Infernale degli Arcturus, oppure ad altrettanto imponenti capitoli dell’avantgarde scandinava, tecnicamente impressionanti, come Hin Vordende Sog og Sø degli Asmegin o Empiricism dei Borknagar – tutti ovviamente prodotti e figli della grande madre Norvegia. Nei dischi dei Solefald c’è sempre più di quanto l’occhio possa vedere o l’orecchio possa percepire: si aprono spazi nuvolosi e contorti, orizzonti infiniti e acque increspate, si snodano sentieri tortuosi e foreste intricate, tutto nel simbolo del metal, quel metal tra black ed elettronico che aderisce a schemi antichi e infrange le barriere dell’evoluzione musicale. “Pills Against the Ageless Ills” esce in quel periodo sperimentale che vede gli Ulver cedere alle lusinghe dell’elettronica pura e gli Arcturus imporsi come rivoluzionari del concetto di black metal come arma di distruzione di massa. Passo dopo passo, traccia dopo traccia l’album si rivela con una forza dai connotati ancora sconosciuti, una evoluzione che cementa le radici del black norvegese e le estirpa un attimo dopo, per poi piantarne nuovamente gli eccentrici semi. Una copertina paranoica e un libretto scarno ma essenziale conducono all’altrettanta paranoia che filtra attraverso l’angosciante, flebile intro armonica di “Hyperhuman“, che esplode in un turbinare di batteria e chitarre, nel più puro stile black, e introduce l’organo hammond che sarà poi una delle immagini della rivoluzione avantgarde. Due fratelli, “Cain” il pornografo e “Fuck” il filosofo, raccontano attraverso testi mozzafiato il turbine devastante delle loro vite, traviate da visioni estremiste, folli e violente delle loro miserabili vite.

I tempi si accentuano e si infrangono come onde sugli scogli, e raccolgono ora il growl senza compromessi di Cornelius e ora la voce pulita e decisa di Lazare, che in poco più di quattro minuti impreziosisce l’intera atmosfera grazie a riff altamente musicali, ricchi di esperienza e di melodia, che giocano con le emozioni in assoli dal gusto ora progressive e ora minimalista, nel più puro stile Solefald, senza i dubbi intermezzi alternativi del passato Neonism. Blocchi melodici e turbini di chitarre impongono la loro attenzione anche nell’eccellente “Charge of Total Affect“, le cui evoluzioni ricordano tanto il mostruoso debut degli Asmegin, nel loro tenebroso incedere sintetico di sottofondo, unito al tappeto di chitarre e a uno splendido, ispiratissimo assolo di tastiera la cui ossessionante melodia ha il potere di eradicare l’ascoltatore e di trascinarlo in un immaginario escheriano dove chitarre classiche, elettronica e batteria cadenzata danzano come falene attorno alle luci di un portico che conduce in un portentoso aldilà musicale. Aldilà il cui accesso viene negato istantaneamente dalla rocciosa “Hate Yourself“, che insieme alla conclusiva “Hierarch” dimostra quanto siano esperti nel proprio mestiere i due norvegesi, offrendoci un panorama rabbrividente di black quasi heavy, contornato da duetti canori di grande linearità e di sapiente gusto compositivo di matrice decisamente classica. Tormentati, i due dividono a metà l’album con l’eccellente “The USA don’t exist“, dal testo al fulmicotone e dal ritornello ossessionante, derogatorio, dove Cornelius si concede il lusso di cantare a quella maniera quasi “gothic”, con voce trascinata e impettita, sottolineando una tremenda e personale critica nei confronti dell’America, affogata in un contesto decisamente denigratorio come il tema destabilizzante dell’intero album. Sulla cresta dell’onda della rivoluzione si piazza anche la temibile “Anti-City Strategy“, che immobilizza lo scorrere del tempo e dipinge lo scenario in cui un uomo da solo vaga nelle profondità della propria anima mentre osserva un missile a un millimetro dal suolo, una catastrofe annunciata il cui sconvolgimento verrà attivato nel momento il cui il tempo riprenderà la propria folle corsa verso l’annichilimento della razza umana. E assoli di pianoforte, intermezzi elettronici e chitarre da multa per eccesso di velocità compiono le proprie gesta di fronte a un ascoltatore attonito, incapace di descrivere cosa l’attenderà anche solo nei cinque secondi successivi di canzone.

Su tale lama di rasoio corre l’intero “Pills Against the Ageless Ills”, un filo tagliente, su cui correre a piedi nudi mentre la lama si tinge di sangue, un filo destabilizzante, prorompente, armonioso, che fa delle leggi del metal il proprio credo e della loro distruzione il proprio scopo. Una vera accelerazione dell’evoluzione del black metal tra tradizione e innovazione, un nuovo modo di percepire e raggiungere una tanto grande ambizione senza distruggere, ma costruendo, sovrapponendo, espandendo e contraendo, come una forza universale.

Una ribellione al sistema utilizzando attrezzatura, mezzi e scopi del sistema stesso, una imprevedibile dimostrazione di quanto può essere eclettico il metal senza assisterne alla distruzione. Una lezione, assimilata e perpetrata in questi anni dalla new-wave scandinava, che getta fango in faccia alle teste di legno che non riescono a vedere oltre il proprio naso, a coloro che giudicano metal solamente ciò che è sempre stato considerato metal venti anni fa; a coloro che fanno finta di camminare avanti e invece rimangono indietro; a coloro che rifiutano le evoluzioni cercando di servire continuamente lo stesso piatto, con l’arroganza e la presunzione di spacciarlo come unica manifestazione di sanità del metal. Una lezione di stile ai sedicenti puristi del metal ormai incrostati di muschio e invecchiati, consumati dalla luce dello stesso sole, incuranti del fatto che la realtà ha diverse sfaccettature, strafottenti nel loro guardare indietro rifiutando l’avanti, e andando così contro le stesse leggi che venti anni fa crearono quei capolavori di “avanguardia” che ora viene chiamata “classico”, e ciechi nel notare che ciò che ora viene chiamato “avanguardia”, tra venti anni sarà classico, e immortale.

Certo, potrò non piacere a molte persone per via delle mie opinioni e del mio modo di esprimerle senza essere diplomatico, ma non accetto l’arroganza di chi insiste nel rimanere intrappolato nei cosiddetti canoni “severi e invalicabili” del metal. Odio dare spiegazioni e non ne chiedo, qualcuno pensa che il metal debba rimanere chiuso in uno stanzino impolverato, e che non debba esistere alcun tipo di evoluzione, come se tale limitazione apportasse gusto e varietà alla scena musicale mondiale; qualcuno è persino disposto a gettare nella polvere quindici anni di luminosa, ribelle e stupefacente storia del metal moderno, nel nome di un’utopia fatta di un’eterna ripetizione dello stereotipo classico stantio e immobile. Io mi opporrò fermamente a questo processo, la mia voce, fosse l’unica, si scaglierà sempre contro gli ignoranti e gli ottusi del metal. Questo disco ribadisce in maniera severa, eclettica e lungimirante cosa significa suonare, cosa significa evolversi e credere nella crescita artistica, intellettuale e tecnica del metal inteso in ogni sua sfaccettatura. Chi ha questa musica nel sangue lo capirà, mentre i sedicenti “intransigenti”, coloro ai quali tremano le gambe appena percepiscono un bagliore di dinamismo, rimarranno con lo sguardo torvo a fissare la polvere.

TRACKLIST:

1 – Hyperhuman
2 – Pornographer Cain
3 – Charge of Total Affect
4 – Hate Yourself
5 – Fuck Talks
6 – The Death Of Father
7 – The USA Don’t Exist
8 – Anti-City Strategy
9 – Hierarch

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