Recensione: Pitfalls

Di Stefano Usardi - 24 Ottobre 2019 - 10:00
Pitfalls
Band: Leprous
Etichetta: Inside Out Music
Genere: Progressive 
Anno: 2019
Nazione:
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82

A due anni dall’ottimo “Malina”, ecco che tornano sulle scene i norvegesi Leprous. “Pitfalls”, sesto album del nordico ensemble, segna un ulteriore passo verso il cambiamento sonoro già intuito nel recente passato dei nostri e, senza ombra di dubbio, offrirà il fianco alle frecciate dei detrattori del gruppo: questo perché, stavolta, i Leprous decidono di scompaginare le carte e presentare ai propri fan un album per certi versi destabilizzante, figlio di un drastico alleggerimento della componente metallica in favore di soluzioni vicine all’elettronica, al rock alternativo e, cosa che sicuramente farà storcere il naso ai più oltranzisti tra di voi, un guardingo interesse per sonorità riconducibili al pop. In “Pitfalls” chitarre e batteria passano decisamente in secondo piano, lavorando sottotraccia o perfino scomparendo per ampi tratti per concedere quasi tutto lo spazio alle tastiere e alla voce, vera padrona della scena. Einar domina infatti ogni traccia, passando in rassegna il suo repertorio di voce pulita giostrando tra falsetto e toni di volta in volta morbidi, colloquiali, introspettivi o piacenti, lavorando contemporaneamente sulle emozioni da trasmettere e sul messaggio da veicolare con i testi, concernenti le vicissitudini dello stesso Einar del recente passato, preda della depressione. Se quanto appena detto non bastasse, lasciatemelo dire chiaro e tondo: in “Pitfalls” non c’è nulla, NULLA, che rimandi a un album metal o prog metal. Le prime tracce dell’album presentano suoni pacati, atmosferici e a loro modo contemplativi, notturni, dal retrogusto spiccatamente pop, costruiti su schemi relativamente semplici e melodie accessibili, di ampio spettro; procedendo col minutaggio si insinua una componente progressive serpeggiante, ingannevole e velatamente oscura, che inserisce nelle trame sonore tentacoli più inquieti, tesi, creando così un climax che si sviluppa fino alle ultime tracce dell’album, tendenzialmente più movimentate e corali.

L’album si apre sulle note malinconiche, soffici e striscianti di “Below”, primo singolo scelto. Dopo un inizio in sordina, l’esplosione delle melodie si appropria della scena, donando alla traccia il suo profumo da tema di un film di James Bond – per usare le parole del frontman – e conducendo l’ascoltatore in un vortice orchestrale, cupo e per certi versi struggente. Un’apertura più carica di groove apre “I Lose Hope”, pezzo disteso e dominato, almeno per buona parte, da melodie languide e conversative, che non mi stupirei di trovare come sottofondo in un club alla moda. La sveglia arriva in un attimo, poco dopo la metà del pezzo, quando una sferzata più dark sopraggiunge – quasi a sottintendere che non tutto sia come dovrebbe – salvo poi sparire, di nuovo fagocitata dal groove indolente del pezzo. “Observe the Train” viene introdotta da una melodia pacata, quasi ascetica nel suo lento e nostalgico incedere. Gli intrecci vocali fungono da contrappunto ideale alle melodie, creando un brano fluttuante, soffice e delicato, da piovosa giornata autunnale. “By My Throne” gioca con un’apertura più tesa che, nonostante si mantenga su ritmi relativamente blandi, si carica di elementi provenienti da generi come dark, pop e certo rock alternativo che ne stratificano lo sviluppo successivo, il tutto punteggiato dalle ripetute sovrapposizioni vocali. Si arriva ora ad “Alleviate”, secondo singolo dell’album e, sempre nelle parole di Solberg, traccia più accessibile dello stesso. In effetti il mood del brano si mantiene – almeno dal punto di vista prettamente musicale – piacevole, accattivante, retto da un percussionismo secco e rintuzzante. La tensione cresce sino all’esplosione melodica che si appropria della seconda metà, salvo sfumare di nuovo nella quiete e cedere il passo ad uno dei pezzi a mio avviso più interessanti dell’album, “At the Bottom”. Qui, dopo un inizio soave ma al tempo stesso permeato da una certa malinconia – sempre sorretto da un tappeto elettronico molto presente – il brano inizia a caricarsi, alternando brevi e rapide sfuriate a momenti dall’inquietudine sottile. In realtà il picco della traccia, ciò che veramente brilla all’interno della composizione, è il suo crescendo conclusivo, che dall’intermezzo strumentale vagamente esotico conduce l’ascoltatore al finale teso e poi nuovamente pacato, in un veloce e vorticoso avvicendamento tra umori diversi che, oltre a togliere ogni punto di riferimento, profuma di progressive d’alta scuola. “Distant Bells” si apre con un ritmico pulsare pianistico e una voce solitaria, malinconica, sofferta. La melodia soffusa e dal vago retrogusto ambient si intensifica, si affievolisce, si ritorce, mantenendo una tensione costante sotto la superficie ma lasciando alla voce il centro della scena. Nella seconda parte del pezzo l’elettronica sembra pretendere una maggiore attenzione, ma proprio quando l’inquietudine pare prendere il sopravvento ecco la deflagrazione nella maestà orchestrale, con i cori liberi di donare il giusto contrappunto per poi svanire un attimo prima del finale. “Foreigner” si discosta completamente da ciò che l’ha preceduta per via del suo incedere più brioso, movimentato, in cui una sezione ritmica a ruota libera sorregge schemi pop mescolati a una sfacciataggine vagamente rockeggiante. Si arriva infine alla conclusiva “The Sky is Red”: undici minuti e mezzo di ansia musicale declinata da ritmi spezzati, agitati, impazienti. Le melodie si fanno cupe, volteggiando di arpeggio in arpeggio intorno alle pulsazioni ritmiche per dare sostegno alla voce, creando un girotondo emotivo inquieto e circospetto. Qui la componente progressive torna padrona incontrastata, scandendo il minutaggio della canzone attraverso un filtro poliedrico e schizoide. L’ultimo terzo della canzone si apre con un arpeggio disturbante, figlio di un percussionismo lento e ossessivo che pian piano prende piede, sorretto da una melodia malsana che ci accompagna nel crescendo finale, chiudendo “Pitfalls” con una nota di angoscia latente piuttosto marcata.

Pitfalls” è un disco strano: per certi versi destabilizzante, per altri la naturale evoluzione di quanto i Leprous (o il solo Solberg, volendo essere maligni) hanno fatto finora prendendo una direzione che, ribadisco, farà storcere più di un naso. Non è un capolavoro, forse non è neanche il disco migliore dei norvegesi, ciononostante è un disco ottimo, senza alcun dubbio: elegante, raffinatissimo, emotivamente denso, “Pitfalls” non si limita a veicolare il suo messaggio nel modo che i fan si aspetterebbero ma sceglie di percorrere un’altra via, andando dove gli pare e soprattutto come gli pare. Non un disco che piacerà a tutti e difficilmente un disco che piacerà subito, ma un disco che striscia lentamente sottopelle e inizia a svelare i suoi pregi (che non sono pochi) dopo ripetuti ascolti e, soprattutto, solo a chi avrà la pazienza di concederglieli.

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