Recensione: Place Called Rage
Nel 1995 un pugno di musicisti del Long Island fu incaricato di assemblare un progetto denominato Place Called Rage, con lo scopo di tratteggiare una cifra stilistica rappresentativa del proprio territorio d’origine ed attività.
La durata del super gruppo fu a dir poco fugace, in pratica il tempo di attaccare i jack degli strumenti agli amplificatori, registrare una manciata di ruggenti rock songs per un omonimo, unico debut album, e riprendere ciascuno la propria strada.
I quattro moschettieri del combo PCR erano Al Pitrelli (Savatage, Alice Cooper, Megadeth, Asia, Trans Siberian Orchestra) alle asce, Tommy Farese (Trans Siberian Orchestra, Rondinelli) dietro i microfoni, Danny Miranda (Blue Oyster Cult, Queen with Paul Rodgers) al basso e Chuck Bonfonte (Saraya) alla batteria; ma pure il magistrale Mark Mangold di Touch e Drive She Said offrì il proprio determinante contributo alle tastiere.
Ben diciassette anni dopo, l’Escape Music ha deciso di ristampare Place Called Rage, riproponendolo in versione totalmente rimasterizzata.
E bene ha fatto: non solo perché ha riportato alla luce tracce che non sono mai state eseguite in concerto e che probabilmente non sono state ascoltate più di tanto al di fuori forse del mercato giapponese, ma anche perché la qualità del lavoro dei PCR è di pregevole fattura, e sicuramente riscuoterà interesse adesso che la passione per certo classic rock “hardeggiante” e devoto al blues ed ai maestri dei seventies si è diffusamente riaccesa.
Già, perché il rock duro dei Place Called Rage è quanto di più classico possiate immaginare.
Un brano come “I Know Where You Been”, infatti, è un fuoco d’artificio di riff chitarristici secchi e taglienti, su cui spaziano una voce arrochita e soulful e ceselli di organo e piano, in un ambiente ingioiellato dall’immancabile solo di chitarra elettrica.
Molte le tracce contaminate da un svolgimento carico di incalzanti groove e stipato di influenze funky e rhythm’n’blues: è il caso di “Place Called Rage”, dal basso pulsante e rotolante che gli conferisce un caldo effluvio di black music. Ed è lo stesso quattro-corde di Danny Miranda ad accoppiarsi con la chitarra di Al Pitrelli in “Trapped” per conferire al brano un impulso inarrestabile e funkeggiante. Anche “One Child”, poi, si appropria d’influssi errebì qui, però, resi ancora più roventi grazie al mix con echi di Led Zeppelin e di certi Deep Purple (era Glenn Hughes), e da una chitarra particolarmente affilata e tagliente.
“We’re Not Coming Home”, invece, è tra le tracce che esplicitano il mood prevalente del platter: quello in cui una voce negroide lancia un trascinante hard rock dalle forti connotazioni blues. Una struttura che ritorna anche nel suono “pesante” di “Thunderbox”, caratterizzato da chitarre e organo hard e da qualche richiamo agli AC/DC, mentre “Chained To Maniac” è un rock boogie piano-leaded che riporta ad influenze southern. I richiami al rock sudista si riaffacciano pure in “Jenny Doesn’t Live Here Anymore”, ballatona incentrata soprattutto sull’apporto prelibato di pianoforte e voce.
Su un livello più pacato dal punto di vista dell’impeto sonoro si collocano vieppiù “Take It Lying Down”, power ballad che ha il suo perno soprattutto sulla voce roca ed efficace di Tommy Farese, “Someday”, ballata midtempo che vede sugli scudi le chitarre acustica ed elettrica e che a molti ricorderà certi Tesla, ed ancora “Can’t Find My Way Home” ballata semi acustica veloce e roots di grande piacevolezza.
Menzione d’onore, infine, per “What These Eyes Have Seen”, nella quale le tastiere costruiscono un manto sonoro sul quale si intessono le evoluzioni della voce ancora sporcata di blues e della sei-corde elettrica in un ambiente lento e sospeso che rammenta certi Deep Purple e Uriah Heep, ma pure Black Country Communion (che ovviamente nel 1995 erano ben là da venire) e Led Zeppelin.
Non v’è nulla di nuovo sotto il sole, come si può facilmente intuire, in questo album riscoperto da Escape, ma certamente Place Called Rage fornisce almeno una ragguardevole lezione di stile e di feeling, che appare in grado di attirare, come si accennava più sopra, qualche attenzione più oggi, nel contesto di revival in corso del sound che fece grandi, in ordine sparso, Bad Company, Free, Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd, Deep Purple, di quanto potesse accadere nel 1995 (benché non manchino spunti risuonanti gente più cronologicamente vicina come Tesla ed Extreme), quando i padiglioni auricolari degli appassionati di rock erano tesi prevalentemente verso tutt’altre direzioni.
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Line Up:
Al Pitrelli: chitarre
Tommy Farese: Voce solista
Danny Miranda: basso
Chuck Bonfonte: batteria
Mark Mangold: ospite alle tastiere
Tracklist:
01. I Know Where You Been
02. Place Called Rage
03. Trapped
04. Take It Lying Down
05. Someday
06. One Child
07. What These Eyes Have Seen
08. Can’t Find My Way Home
09. Jenny Doesn’t Live Here Anymore
10. Thunderbox
11. We’re Not Coming Home
12. Chained To Maniac