Recensione: Q2K

Di Alessandro Marcellan - 18 Agosto 2010 - 0:00
Q2K
Band: Queensrÿche
Etichetta:
Genere:
Anno: 1999
Nazione:
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50

C’erano una volta i Queensrÿche. Storie sempre diverse, ma accomunate da un filo conduttore che riusciva incredibilmente a far percepire all’ascoltatore che dischi pressoché opposti come Operation: Mindcrime e Promised Land venivano dalla stessa scuola. Melodie emozionali e personalissime, clamorosa estensione e pulizia vocale, arpeggi ricercati e figli dei seventies, bicordi a profusione, arrangiamenti curati al minimo dettaglio, produzioni cristalline, assoli cantabili e spesso permeati da un velo malinconico. Sound austero e maestoso. Aristocratici del metal, a Seattle.

Poi c’erano altri Queensrÿche, un’altra storia, ma un’altra faccia. 1997, 1999, e ancora (chissà perché?) 2001. E per oggi ci fermiamo qua, perché oggi è di Q2K che si parla. E l’opener Falling Down non ci aiuta a parlarne benissimo: l’attacco è già un piccolo shock, col suo piglio groove/funk-rock, gli sfacciati riff bluesy, una voce irriconoscibilmente “rustica” e fastidiosamente compiaciuta da certi dozzinali coretti. Col senno di poi (udite udite) si rivelerà essere una delle tracce migliori, il ritornello preso a sé non è male e lo stesso vale per la finale disfida di guitar-solo, anche se è un pezzo che non avrei mai voluto sentire dai Soundgarden, figuriamoci dai Queensrÿche. A proposito (non l’avevo detto?), non c’è più Chris De Garmo. Pochi a suo tempo notarono la differenza, considerato che Q2K è un perfetto seguito di Hear in the now Frontier, tanto che lo stesso De Garmo fu colpevolizzato dai più di aver trascinato la band nel grunge: cosa – diremmo – avvalorata dalle sue frequentazioni post-Ryche (Mr. Cornell, come sopra) ma smentita clamorosamente dalla strada intrapresa dalla band senza di lui. Il figliol prodigo della Seattle bene è qui sostituito da Kelly Gray, vecchio amico di Geoff Tate e già suo collega di band anni addietro nei Myth, ma, soprattutto, noto come produttore incline ai suoni diretti e stradaioli (in quegli anni produsse anche il grunge-act Candlebox, i protetti di Louise Veronica Ciccone, al secolo Madonna): altro che una semplice sostituzione, Tate pensa bene di affidare a Gray anche la cabina della consolle, e il risultato prettamente sonoro non può che essere praticamente l’opposto di quanto finora proposto dai Rÿche con il mixing limpido di James “Jimbo” Burton.

Detto delle discutibili scelte di mixing e tornando alle canzoni, le cose vanno tuttavia meglio al secondo tentativo: arrangiamenti a parte, Sacred Ground presenta qualche soluzione di classe ed originalità, Tate si riappropria di quei suoi toni bassi ed emozionali, le chitarre delineano bene e con rarefatta ossessività una strofa elegante e che può fare a meno del refrain. Anche l’inizio della successiva One Life pare promettere bene fra echi di chitarre lontane e il delicato battente di Rockenfield, ma l’improvviso (improvvido) attacco elettrico ci riporta a una realtà fatta di vaghi tribalismi e accordi pregni di sudore e strada, fra slide-guitar e discutibili arrangiamenti vocali, elementi che rincontreremo più avanti (e ne avremmo fatto volentieri a meno) nella tediosa Beside You, la quale si trascina stancamente in assenza di melodia ma con tanti sbadigli (lo skip è una tentazione che diverrà realtà col passare degli ascolti). E così alla terza traccia il platter non sfonda, e poi, certo, questi non sono i Queensrÿche, ma questo lo sapevamo; come non lo sono quelli di When The Rain Comes…, lento semi-acustico accostabile (ovviamente?) a certe cose del grunge, lontano anni-luce dalla maestosità di una Silent Lucidity o di una Lady Jane (o anche, senza voler andare troppo in là nel tempo, dalla classe di una tanto bistrattata Hero). In realtà, alla fin fine, il pezzo si lascia anche ascoltare: merito soprattutto del pathos infertogli da un ottimo ed espressivo Tate, che, soprattutto nella strofa e nell’interpretazione crescente di un pur non irresistibile ritornello, riesce quasi a farci dimenticare gli incroci solistici delle chitarre (più ruvide che mai) tutt’altro che memorabili.

Quando il mestiere non riesce a salvare la baracca arrivano i guai, sotto forma, per esempio, di How Could I?, in cui i rimasugli dei Rÿche (nell’inciso centrale – che peraltro si allunga inutilmente – e in un acuto di Tate a fine refrain) si perdono in un ritornello ruffiano e in una base inconsistente: è evidente che un pezzo banale come questo, in un disco dei Queensryche, non può che essere un riempitivo; così come Wot Kinda Man con il suo insopportabile refrain/riff ripetuto allo sfinimento, che pare quasi il risultato di una registrazione lasciata a metà e inserita, così come stava, giusto per far minutaggio. Proviamo ad accontentarci: se non altro Burning Man (meno) e Breakdown (più) tentano di divertire con un minimo di grinta e convinzione (la parte accelerata del break centrale di quest’ultima, pur non facendo sobbalzare dalla sedia, ci ricorda perlomeno chi abbiamo davanti). Prima di allora le chitarre incrociate di Liquid Sky avevano tentato di riprendere la via maestra, riuscendoci però solo in parte: con un arrangiamento consono e una fase solista vera e propria il pezzo avrebbe potuto essere una gradita sorpresa; così com’è stato registrato, invece, risulta “solamente” un brano discreto, più vicino alle coordinate stilistiche di Sacred Ground che alla strada principale percorsa nel disco. E quando non ci si sperava più, alla traccia numero undici, ecco i Queensrÿche che si temeva di aver perduto e che al primo giro di lettore si potrebbe addirittura aver perso per aver deciso di premere stop, ponendo fine anzitempo alla propria insofferenza. The Right Side of my Mind è il colpo di coda che i nostri non avevano finora mai mancato nei loro dischi, dai tempi di Roads to Madness fino alla magnifica Sp00l, ed entra quindi di diritto nel club delle chiusure memorabili, con la sua crescente intensità, i suoi stacchi improvvisi, le sue melodie al 100% Queensrÿche, un ritornello extra-lusso, e gli assoli al posto giusto. Una conclusione così ti mette in pace con i Rÿche, e ai successivi ascolti del disco cerchi una nuova chiave di lettura per dargli un’altra possibilità.

Q2K è un disco che non risulta particolarmente difficile da assimilare, incarnandosi sostanzialmente (come accennato) in un seguito più grezzo del già rinsecchito Hear in the now Frontier: i Queensrÿche hanno semplicemente provato a dare un seguito alla precedente sterzata del loro sound, ma, a parte quei 3-4 pezzi di rilievo, non sono riusciti a mantenere ciò che in passato, nonostante tutto, avevano sempre conservato, ovvero la personalità. Hanno indossato la camicia di flanella, fuori tempo per giunta (perciò non li si può accusare di commercializzazione, di questo va dato atto), ma semplicemente l’abbigliamento non era tagliato per loro. Vallo a dire a uno di Seattle.

Alessandro Marcellan – “poeta73″

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Tracklist:

01. Falling Down
02. Sacred Ground
03. One Life
04. When the Rain Comes…
05. How Could I?
06. Beside You
07. Liquid Sky
08. Breakdown
09. Burning Man
10. Wot Kinda Man
11. The Right Side of My Mind

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