Recensione: Rose Thorn Necklace

«Cut my throat, while i’m drowning in my sleep / I’m wide awake, i smile red as you’re watching me / Let me gargle, choke on my own blood / Forever gone, eyes glazed as my lungs flood»
Parole, quelle dei Ghost Bath, che non lasciano dubbi sulla loro appartenenza, perlomeno iniziale, al lato maggiormente cupo del black metal e cioè al depressive. Molto in auge sino a pochi anni fa, portato avanti principalmente da una costellazione di numerose one-man band brillante in tutto il globo, questo sottogenere si è via via assottigliato per trasformarsi, almeno parzialmente, in quello che viene definito post-black.
Un percorso evolutivo – o involutivo, a seconda dei punti di vista – che trova fra i suoi maggiori esponenti proprio la band americana che, con “Rose Thorn Necklace“, taglia il traguardo del quinto album in carriera. Non poco, per il mastermind Nameless e i suoi adepti, giacché il medesimo l’ha fondata nel 2012. Sino a crescere, a poco a poco, sino a raggiungere livelli tecnico/artistici di alto lignaggio. Tanto da attirare l’attenzione di una major come la Nuclear Blast, tradizionalmente più attenta ad altri territori del metal estremo.
E, come da definizione, ciò che importa di più a chi si cimenta con il post-black, che a volte può anche coincidere con quella che si chiama blackgaze, sono quei sentimenti che provocano ferventi e profondi moti nell’animo umano come la tristezza e la malinconia. Ben dipinti sia nell’intro strumentale “Grotesque Display” ma soprattutto nella coinvolgente title-track, segnata dallo screaming disperato di Nameless e dalle meste ma melodiche note nascenti dalla chitarra classica e da quella elettrica.
Non bisogna però dimenticare che comunque, bene o male, il disco è qualcosa strettamente legato al black metal, con che non ci si può dimenticare che esso sa aggredire chi ascolta con tutta la furia e potenza che è in grado di generare nella sua forma natìa. Il che accade pure in “Rose Thorn Necklace”, ove non mancano istanti di pura follia scardinatrice (“Well, I Tried Drowning“), ben gestita dai componenti del combo degli States per aumentare la percezione di quei sentimenti che, a volte senza un motivo, innescano lo sgorgare delle lacrime ai lati degli occhi.
Interessante anche l’inserimento di song strumentali come “Thinly Sliced Heart Muscle” e “Needles“, dal sound ovattato e armonico, aventi il preciso scopo di acchetare lo sgomento per una vita che, a detta delle tematiche affrontate da chi si esprime in questo sottogenere, regala solo dolore, sofferenza e solitudine. Ed è proprio qui che s’incontrano con più intensità le dolci carezze che sa dare la citata blackgaze, mirabile incrocio fra black metal e shoegaze. Sono istanti di pura illusione, in cui la mente cerca di fuggire dagli orrori dell’Umanità per cercare rifugio fra le sicure braccia della Natura.
Come si usa oggigiorno ormai un po’ dappertutto, sono presenti inserimenti ambient allo scopo non celato di creare la giusta atmosfera, il giusto mood che permea sino al midollo le canzoni. In questo caso ben concepite e quindi eseguite, con andamenti perlopiù semplici e lineari per non creare confusione e non distogliere l’attenzione dallo scopo principale, che è quello di concentrarsi su se stessi alla ricerca di sensazioni, di trepidazioni, di turbamenti lontani. I quali danno il la allo sviluppo di un’imperante nostalgia che avvolge tutto il corpo come uno stretto sudario, soffocando quasi il respiro per la consapevolezza che, una volta morti, tutto si dissolverà nel nulla più buio (“Stamen and Pistil“).
Le tracce scorrono con fluidità, piacevolmente nonostante le parti più impetuose, regalando poco più di mezz’ora di permanenza nel Mondo dei sogni. Una volta terminata la closing-track “Throat Cancer“, tormentato inno all’abbandono, rimane tuttavia la sensazione che manchi qualcosa, come se il discorso cominciato con “Grotesque Display” non sia stato completamente terminato, lasciando fuori dal disco qualcosa che non si riesce a ben definire.
A ogni modo “Rose Thorn Necklace” ha il pregio potenziale di portare il post-black all’attenzione di un pubblico più vasto del solito. In questo caso, sì, non c’è dubbio, i Ghost Bath hanno raggiunto lo scopo prefisso.
Daniele “dani66” D’Adamo