Recensione: Rotten Garden

Di Manuele Marconi - 25 Gennaio 2021 - 14:39
Rotten Garden
Band: Grima
Genere: Black 
Anno: 2021
Nazione:
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81

Dalle gelide terre della Siberia nascono due gemelli, Morbius e Vilhelm, con in testa l’idea di diffondere il soffio boreale della madre Russia lungo le latitudini più lontane possibile. Il progetto Grima nasce nel 2015 e nei sei anni successivi produce materiale di ottima qualità, proiettando pian pano il gruppo verso i vertici della scena black metal dell’ex URSS. L’ultimo album dei nostri gemelli del male rappresenta l’occasione perfetta per raggiungere e consacrare la posizione di alfieri del proprio genere e “Rotten Garden” ce la mette tutta per aiutarli nell’obiettivo. L’album si presenta molto bene, da subito di facile ascolto, vario e per nulla stucchevole.

Cedar and Owls” apre perfettamente l’opera: molto buono l’assolo di chitarra accompagnato dall’ingresso di tastiere, che creano un’ottima atmosfera, aiutate da un campionamento di gufi che (fedeli al titolo del brano) donano un’aura spettrale al tutto decisamente calzante ed indovinata. Verso metà traccia assistiamo ad un rallentamento forte quanto evocativo, seguito da un’ottima ripresa di chitarre e tastiere: la dinamica è incredibile. Tutto si accompagna perfettamente in un brano vario, trascinante e a tratti sognante. Pezzo di pregevole fattura. “At the Foot of the Red Mountains” ha un riff portante molto buono, anche qui pezzo coinvolgente. Stupendo l’inserimento del Bajan (fisarmonica russa con più ottave rispetto a quella classica, quindi capace di produrre suoni più profondi e con uno spettro musicale più ampio) che trasporta l’ascoltatore direttamente fra le steppe siberiane, davvero fenomenale. Saper legare in modo così omogeneo le sonorità locali con quelle di un macrogenere come il black metal senza suonare folk (e anche lì non è scontato) non è da tutti. Sempre di scena le chitarre e i blast beat, che fanno da tappeto a sonorità costantemente fredde e taglienti. Black metal al suo stato dell’arte che profuma di ruggine post sovietica. Nella Title track il suono del Bajan apre il brano come unico accompagnamento ad un arpeggio di chitarra. Ci troviamo davanti un pezzo decisamente atmosferico, assolutamente gradevole nel contesto dell’album, e coerente con l’interludio precedente, che ne assume quasi il ruolo di introduzione. L’uso del bajan qui è intelligente, perché rappresenta una sorta di “scivolo” fra le parti più lente e quelle più accelerate del brano e viceversa, evitando così stacchi troppo repentini. Le tastiere, sempre gradevoli, adornano costantemente il pezzo più lungo del lotto (unico di 10 minuti) e accompagnano l’ascoltatore verso la parte finale dell’album.

Rotten Garden” fa centro: album senza difetti veri e propri, solido, con una produzione perfetta ed una varietà che rende giustizia ad un lavoro coerente e di qualità. Il soffio tagliente del Buran Siberiano ha levigato una nuova preziosa e lucente gemma fra le steppe.

 

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