Recensione: Stomp 442

Di Stefano Burini - 26 Dicembre 2012 - 0:00
Stomp 442
Band: Anthrax
Etichetta:
Genere:
Anno: 1995
Nazione:
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65

Periodo di “esperimenti”, gli anni ’90, per quasi tutti i gruppi degli anni ’80 che non avessero appeso al chiodo chitarre e giubbetti di pelle all’alba del nuovo decennio e tra coloro che osarono di più e, tutto sommato, senza scrupoli di sorta in quanto a contaminazioni e derive trendy, gli Anthrax avevano di certo un posto d’onore.  

Dopo “Sound Of White Noise” e il (riuscito, seppur all’epoca non molto apprezzato) tentativo di ibridare il loro thrash metal con le allora nuove tendenze, gli Anthrax, complice il declino del Seattle sound, pensarono bene di dare un ulteriore sterzata alla loro musica. Il risultato di questo cambio di percorso da parte della band si rifletté in “Stomp 442”, un album (il secondo con John Bush al microfono) in cui, dopo l’addio di Dan Spitz e l’abbandono (temporaneo) del logo originale, Ian, Bello e compagnia decisero di dirigersi nella direzione di quel particolare ibrido di thrash, hardcore e addirittura rap metal che loro stessi avevano contribuito a sviluppare e portare al successo proprio nel 1991 con “Bring The Noise” e dal quale erano poi germogliati molti sottogeneri che avrebbero fatto furore per i dieci-quindici anni succesivi.

Se “Sound Of White Noise” si configurava, tuttavia, come un disco interessante e complessivamente molto riuscito, in cui ogni canzone poteva vantare numerose influenze quasi sempre ben amalgamate tra loro, il suo diretto successore era invece molto più monotono dal punto di vista compositivo e decisamente più discontinuo in termini di qualità. Le canzoni di “Stomp 442” avevano infatti perso quasi definitivamente quelle tracce di DNA tipicamente anthraxiano che rimanevano nei due-tre precedenti dischi e si caratterizzavano più che altro per la presenza di stilemi riconducibili all’allora nascente nu metal e ai quali i newyorkesi aderivano in maniera rigida, talora addirittura monocorde.  

Su “Random Acts Of Senseless Violence” Bush rappava come nemmeno Zack De La Rocha e, nonostante le distorsioni di chitarra riuscissero nel dichiarato obiettivo di riempire ogni anfratto possibile di  basse frequenze, Scott Ian eseguiva per tutto il tempo partiture davvero minimali (eufemismo) e nemmeno il mini-assolo tutto fischi ed effetti poteva reggere il confronto con l’ingombrante passato. Le cose andavano un po’ meglio con la successiva “Fueled”: non troppo distante dall’opener in quanto a sonorità, per quanto più votata al groove, rimaneva tuttavia un po’ monotona e la mancanza di un cambio di marcia o di una melodia realmente da K.O. si facevano ad ogni modo sentire.  

“King Size” si apriva all’insegna di un riff di estrazione hard rock (seppur declinato con sonorità nu/post thrash) e il brano, decisamente più riuscito e movimentato dei precedenti, andava a ripercorrere alcuni dei sentieri già battuti su “Sound Of White Noise”, lasciando Bush libero di cantare (e non di rappare) su tonalità più sue e mettendo sul piatto della bilancia un guitar work molto più spinto e in linea con ciò che agli Anthrax riusciva (e riesce tuttora) meglio. La successiva “Riding Shotgun” rappresentava l’apice di “Stomp 442”, semplicemente il miglior pezzo in scaletta  ed è sufficiente, ancora oggi, ascoltare l’avvio a duemila allora, il basso di Frank Bello, vivo e pulsante come non mai o, ancora, il devastante cambio di ritmo intorno ai due minuti per rendersene conto.  

“Perpetual Motion”, godibile e movimentata, presentava una parentela piuttosto stretta con certo nu mentre la disordinata “In A Zone” si dava al groove tipico dei Pantera con risultati decisamente perfettibili. “Nothing” proseguiva il discorso relativo alla contaminazione di generi andando ad invadere i territori dell’hardcore punk e del thrash metal old school, tuttavia l’assenza di assoli veri e propri e la scarsa fantasia in fase compositiva si dimostravano più che mai il vero tallone d’Achille di “Stomp 442”. “American Pompeii”, pur lontana da territori di eccellenza ma dotata, finalmente, di una linea vocale riconoscibile, risaliva la china ma purtroppo le seguenti “Drop The Ball” e “Tester”, pur ascoltabili e piuttosto energiche, si configuravano come altri due brani senza infamia né lode, semplicemente piatti e mosci in una maniera che non era e non è tuttora lecito concedere ad un gruppo di prima fascia come gli Anthrax.  

Chiudeva, come forse nessuno s’aspettava, la vituperata “Bare”, una ballata dolce, sorretta da percussioni esotiche e dall’ottimo cantato di John Bush a lanciare la volata ad un finale in crescendo. Nient’affatto male ma decisamente fuori dai canoni di una band che raramente ha fatto concessioni così spudorate alla melodia; da qui, forse, la reale disapprovazione da parte di molti fan per questa canzone.  

“Stomp 442” è, a tutt’oggi e in definitiva, un lavoro sicuramente particolare, anche e soprattutto nell’economia della discografia di una band come gli Anthrax, e per certi versi anticipatore di tendenze che avrebbero ottenuto grande successo in tempi successivi. E’ certamente possibile rintracciare al suo interno episodi degni di nota ma la mancanza di Dan Spitz e la conseguente ricaduta di buona parte del processo compositivo sul solo Benante si fanno sentire, sicché  il risultato finale rimane irrimediabilmente condizionato dalla continua riproposizione di un numero davvero limitato di soluzioni. 

 

Nota a margine

Notevole, in un album come detto non del tutto riuscito, l’artwork: gli Anthrax abbandonano sia le loro classiche copertine un po’ fumettose degli anni ’80 sia quelle più “concettuali” (per così dire) dei primi anni ’90 e decidono di affidarsi a Storm Thorgerson. L’artista inglese era  noto per aver disegnato alcuni degli artwork più famosi della storia del rock (Pink Floyd, The Cult, Genesis, David Gilmour, Helloween e molti altri) e il risultato fu, come (quasi) sempre di pregio. L’artwork ritraeva un uomo nudo e armato di un primitivo bastone in piedi di fronte ad una gigantesca palla d’immondizia e, con la sua forte valenza simbolica, si imponeva come una delle cose migliori di tutto l’album.

Stefano Burini

 

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Tracklist  

01. Random Acts of Senseless Violence – 4:02

02. Fueled – 4:02

03. King Size – 3:58

04. Riding Shotgun – 4:25

05. Perpetual Motion – 4:18

06. In a Zone – 5:06

07. Nothing – 4:33

08. American Pompeii – 5:30

09. Drop the Ball – 4:59

10. Tester – 4:21

11. Bare – 5:29  

 

Line Up  

John Bush: voce

Scott Ian: chitarra

Frank Bello: basso

Charlie Benante: batteria

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