Recensione: Swagger & Stroll Down The Rabbit Hole

Di Edoardo Turati - 12 Dicembre 2021 - 17:00

Fate raffreddare una coppa da cocktail con alcuni cubetti di progressive. Successivamente spremete mezzo agrume di jazz per ottenerne un gustoso succo e filtratelo. Riempite uno shaker con del metal allo stato puro e versate con un colino un po’ di new wave, estratto di swing e l’immancabile essenza Blues. Agitatelo energicamente per una ventina di secondi e versate il cocktail nella coppa precedentemente raffreddata. Decorate con una fetta di folk e gustatevi la Diablo Swing Orchestra!

Chiudiamo la recensione con questa ricetta? No, proviamo a capire meglio cosa ha messo stavolta nello shaker l’ottetto svedese per decidere alla fine della disanima se la bevanda è realmente gustosa e ricca, o semplicemente un pastrocchio in cui non si distingue un sapore musicale dall’altro. Chi segue la band dagli esordi saprà benissimo che la loro proposta è pressoché unica nel panorama metal, soprattutto nella disinvoltura con cui riescono ad amalgamare generi all’apparenza così distanti; ma la DSO abbatte le distanze con una tecnica mostruosa e con una capacità a volte irragionevolmente disarmante. Non è una band particolarmente prolifica, dal 2006 ad oggi infatti ha pubblicato appena cinque dischi compreso ovviamente il qui recensito Swagger & Stroll Down the Rabbit Hole, che arriva dopo quattro anni dal previo e superbo Pacifisticuffs. Se pensate, inoltre, che gli otto componenti della band siano più che sufficienti, non temete, la DSO ha usufruito anche del supporto di ben 19 musicisti ospiti! Con tutte queste teste pensanti a disposizione, è naturale che la Diablo Swing Orchestra sia una vera macchina di creatività, talento follia e innegabilmente pura ambizione. Immergiamoci allora nell’ascolto, con un consiglio importante: non approcciate l’album con un ascolto superfluo ma dedicategli la giusta attenzione altrimenti ne uscirete tumefatti e soprattutto senza riuscire ad apprezzare la ricchezza della proposta degli svedesi.

Il disco parte con la breve “Sightseeing in the Apocalypse” che funge da intro e inganna l’ascoltatore, presentandosi come un brano semplice e solare, ma basta attendere due minuti abbondanti e la musica si manifesta in tutta la sua complessità con “War Painted Valentine”. Brano selvaggio e letteralmente stordente, con trombe e chitarre che si inseguono con un ritmo pazzo e senza tregua sorretto da un serratissimo drumming. Siamo già totalmente confusi e frastornati. Grazie al cielo “Celebremos lo Inevitable” ci svuota i padiglioni sonori con un pezzo totalmente cantato in spagnolo che inizia come un tango lento e l’immancabile chitarra classica flamenca; ma è solo una facciata di calma apparente, perché il refrain esplode irruento e distorto portandoci in un finale ancora più sostenuto con la bellissima voce di Kristin cattiva e graffiante. Il bello della DSO è che davvero non sai mai cosa succederà, quindi ad ogni nuovo brano pensi tra te e te “E mo’ che si inventano?!” ed infatti la seguente “Speed Dating an Arsonist” è un inno allo swing, in chiave canzonatoria e irriverente nella quale ci piace sottolineare l’ottima interpretazione della Evegård davvero a suo agio ed estremamente duttile. Questo è il brano probabilmente meno metal in assoluto (in realtà il metal non è assolutamente pervenuto, ma non per questo la traccia è sgradevole). La successiva “Jig of the Century” è un’altra canzone stravagante nella sua regressione country, ricca di cori che fa delle distorsioni elettriche la propria follia, mentre “The Sound of an Unconditional Surrender” arriva cupa e inquietante, difatti l’orchestrazione si appoggia al violoncello già contorto e distorto per natura (leggasi Apocalyptica). Il ritmo è pacato è la voce eterea ci accompagna in un brano sinuoso e riflessivo. Con “Malign Monologues” torna lo swing serrato e divertente in pieno stile DSO (stavolta affidato al cantato di Daniel Håkansson) dove tromba, trombone e violino gareggiano in portenti accelerazioni.

La DSO per sua natura camaleontica ci disorienta ancora con la seguente “Out Came the Hummingbirds”, brano dove è il synth a farla da padrone in un pezzo elettronico, quasi dance (!) per poi impazzire sul finale in una meravigliosa contorsione distorta e pesante. “Snake Oil Baptism” è figlia degli ottoni più disparati, mentre “Les Invulnéables” è affidata alla chitarra acustica e al violino: insomma c’è posto, spazio e dignità proprio per tutti. Volgiamo al termine e la DSO ci propone “Saluting the Reckoning” altro pezzo folle e insolente dove duettano briosamente voce maschile e femminile. È il momento di “The Prima Donna Gauntlet” brano empatico dove la voce profonda e ovattata di Håkansson ci traghetta su linee decisamente più metal, addolcite da un assolo etereo di violino al quale si contrappone un finale pesante e greve come non mai con la voce “disperata” che sfiora il growl: brano imponente.

La chiusura è demandata a “Overture to a Ceasefire” e non vi nascondo che è un cessate il fuoco assolutamente gradito e richiesto. Si finisce frastornati, storditi e confusi, come sempre accade dopo l’ascolto di un disco della Diablo Swing Orchestra. Le contaminazioni sonore sono infinite, i voli pindarici intrapresi durante l’ascolto ci sbattono da un luogo all’altro del globo terracqueo lasciandoci naufragare nella musica globale ed universale che solo la DSO riesce a miscelare e compattare in un unico flusso coerente e risonante che ci lascia comunque sazi oltremisura. Una caratteristica meravigliosa della Diablo Swing Orchestra è appunto la loro capacità di creare nuovi mondi folli e al tempo stesso lussureggianti. Tuttavia, questa stessa dualità potrebbe anche essere la loro “rovina” per la non facile assimilazione che mette duramente alla prova l’ascoltatore. Non è un disco per tutti, sia chiaro, bisogna essere predisposti e aperti all’esagerazione e all’eccesso altrimenti potrebbe ribollire solo il caos. Rimane il fatto che non ascolterete mai niente di simile. Promosso a pieni voti. Brani Top: “War Painted Valentine” e “The Prima Donna Gauntlet”.

 

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