Recensione: The Blackest Volume: Like All The Earth Was Buried

Di Andrea Poletti - 17 Marzo 2017 - 7:51
The Blackest Volume (Like All the Earth Was Buried)
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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75

Sunlight’s Bane ovvero “La rovina della luce diurna” e mai come in questo caso la migliore scelta per un monicker di un gruppo, mai nome fu più azzeccato. Quanta violenza, odio represso, distruzione, rancore e decadimento in questo primo disco di una band tanto giovane quanto promettente come questa; un manifesto di innata violenza che riesce al meglio a mischiare hardcore, black, death e post metal in un canovaccio di undici canzone dove il copione finale è scritto sulla tua pelle insanguinata. Undici tracce dicevamo, undici inni al male dell’essere umano moderno con echi di Nails, The Secrets, Hierophant e Anaal Nathrak uniti per dare vita all’immaginazione fatta a odio fine a se stesso. Intolleranza, inadattamento, indisciplina e anarchia sono le basi costruttive su cui andare a scrivere questa recensione che non vuole raccontare il disco nei minimi particolari, ma piuttosto concentrarsi sull’effettiva e spontanea dose di marcio che trasuda minuto dopo minuto.

The Blackest Volume: Like All The Earth Was Buried” porta in dono una maturità tale che non può passare indifferente, ogni brano è studiato nei minimi dettagli, non ci sono cali di tensione, non ci sono filler e la dinamicità complessiva dell’intero progetto porta a voler scoprire canzone dopo canzone quale istrionica soluzione il gruppo sia stato in grado di inventare. Possiamo andare attraverso l’iniziale e terremotante ‘Praise the Venom Shield‘ passando dentro le spire lente e sinistre di ‘I’m the Cold Harsh Wispers in Hell‘, sino ad arrivare alla sperimentale e a tratti psichedelica ‘With Fear This Love Is Given‘ con i suoi otto minuti di viaggio astrale. Non vi sono dunque coordinate stilistiche che riescono a prendere in toto l’intero bagaglio creativo dei Sunlight’s Bane, ma piuttosto, è l’attitudine che dona al complesso una omogenea rivisitazione dell’estremismo contemporaneo ristudiando e destrutturando la classica forma canzone. ‘Dance of Thorns‘ è probabilmente l’apice della sinistra sperimentazione della band, sei minuti di mid-tempos dove una voce filtrata e grottesca ci decanta quell’ipotetico passaggio tra i rovi più malefici, dove non vengono fatti prigionieri e il finale con un fading distorto ci divora, traduce il significato di orrore in suono. Sembra che lo stereo stia tirando i suoi ultimi momenti ma è tutto minuziosamente voluto e ricercato. ‘No taste More Bitter‘ è una ulteriore traccia da segnalare grazie alla sua partenza al fulmicotone e alla successiva progressione in puro grind, sino ad arrivare alla fase “post” centrale dove una voce iper filtrata strizza l’occhio ai Pig Destroyer per cadere in un vortice di incomprensioni amelodiche. Il finale è straziante e si ha veramente difficoltà ad arrivarci in fondo senza sentire mancare il fiato o aver un calo di pressione, se il volume lo consente questo è il tipico brano che si subisce senza vie di fuga. Tutto il resto non ha senso di essere raccontato, è solo un grande ed immenso buco nero che ti inghiotte.

Il migliore consiglio che si può rivolgere a chi per la prima volta si introduce all’interno di questo mondo è quello di prendere fiato, andare in apnea e lasciarsi trasportare sino alla fine senza pause di alcun tipo. “The Blackest Volume” probabilmente ai primi ascolti porterà ad una destabilizzazione del baricentro psicofisico, probabilmente anche il nervosismo salirà spietato, ma se si riuscirà a sopravvivere lungo tutto l’arco del minutaggio la sensazione di esserci strappati le catene che ci legano a terra sarà tangibile per qualche minuto; la definitiva conferma dell’essere liberi di incorniciare lo schifo quotidiano sintetizzando il tutto con un sano e sempre ben accetto dito medio. Sunlight’s Bane, ovvero come volersi bene facendosi del male.

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