Recensione: The Burial Tree (II)

Di Emanuele Calderone - 3 Maggio 2011 - 0:00
The Burial Tree (II)
Band: Ana Kefr
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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85

Gli Ana Kefr, nome che in arabo significa “sono infedele”, sono un gruppo nato nella cittadina di Riverside, situata nella parte sud della California, nel 2008 per volere del cantante/chitarrista Kyle Coughran e del cantante/tastierista Rhiis D. Lopez.

A distanza di un solo anno dalla formazione, il combo rilascia sul mercato il primo full-length “Volume 1”, accolto molto bene dalla critica, merito anche dell’estro dei musicisti coinvolti.
Tempo un anno ed eccoli ritornare, nel 2010, con il singolo “Tonight We Watch the Children Fucking Burn”, al quale fa seguito l’ultimo “The Burial Tree (II)”, che conferma ampiamente
le ottime impressioni avute con il primo disco.

Ma cosa suonano questi ragazzi? Rinchiudere la proposta in un unico genere non renderebbe affatto giustizia alla mole di lavoro e alla creatività di questi Ana Kefr. All’ascolto dell’opera si nota infatti come, all’interno dei vari brani, confluiscano un altissimo numero di influenze. La base, piuttosto solida a ben sentire, da cui il combo parte è una sorta di metal estremo a cavallo tra death e, in quantità sensibilmente inferiore, black metal melodico. Tali generi influenzano pesantemente il riffing, di sovente piuttosto aggressivo e serrato, così come alcune aperture melodiche ora tetre ora malinconicamente violente.
Il quintetto però non si ferma qui e infarcisce la propria musica di stacchi dal sapore progressive metal -specialmente quello europeo-, aggiungendo numerose divagazioni di derivazione quasi jazz. A questi si affiancano addirittura passaggi grind, il tutto condito da atmosfere molto vicine all’avantgarde d’annata.

“The Burial Tree (II)” è un disco strutturalmente piuttosto complesso e intricato. Le chitarre di Brendan Moore e Kyle Coughran sfoderano riff in continuo cambiamento: non si incontrerà mai una sequenza di note che possa in qualche modo apparire scontata o ricordare l’operato di qualche altro gruppo. Allo stesso modo, le ritmiche tessute dalla batteria di Shawn Dawson e dal basso di Alphonso Jimenez, contribuiscono a rendere il tutto più cervellotico e ostico. Non aiutano poi neanche le atmosfere create dalle tastiere e dalle parti di sassofono, che appesantiscono ulteriormente l’umore delle canzoni.
Il mood rimane, per tutti i 62′, sempre negativo, senza che si riesca a scorgere una luce, un momento più rilassato o, quanto meno, più leggero.
Tutto ciò si riflette anche nei testi che accompagnano i quattordici pezzi: tra riflessioni sulla filosofia, sulla religione (probabilmente l’argomento maggiormente affrontato), sulla mitologia, con un occhio di riguardo per quella greca, e sulla politica, non emerge mai una visione positiva del mondo.

Scorrendo con attenzione la tracklist, è impossibile non notare che alcune delle tracce contenute siano dei veri e propri inni all’universo musicale degli americani: composizioni come “Ash-Shahid”, “Emago”, o ancora le finali -e assolutamente spettacolari- “The Blackening”, che a tratti ricorda un ideale mix tra Opeth e i nostrani Novembre, e “The Collector”, vi risucchieranno in un mondo oscuro e privo di qualsiasi speranza.
I brani si dividono fra vere bordate di una violenza quasi inaudita e parti malinconiche e rallentate dove spesso e volentieri fanno capolino anche passaggi in clean vocal.
Naturalmente non mancano brani più diretti e crudi, quali la micidiale “In the House of Distorted Mirrors” di chiarissimo stampo death, piuttosto che i 18 secondi al limite del brutal di “Jeremiad” la quale si lega poi con “Apoptosis”, che si muove con grande disinvoltura tra death metal, jazz e parti elettroniche.
L’unica vera concessione alla melodia ci viene data con “Fragment”, che richiama alla mente l’operato di band sperimentali quali Humanoid et similia. Il minuto e 36 secondi scorrono via con immenso piacere, riuscendo ad imprimersi nell’animo dell’ascoltatore con grande facilità, grazie soprattutto al grande lavoro di piano e chitarra.

Volgendo poi l’orecchio agli aspetti più tecnici, non si può non rimanere a bocca aperta per la prova strumentale offertaci. I musicisti coinvolti in questo progetto si dimostrano dei veri e propri maestri, sfoderando una prestazione maiuscola, ma allo stesso tempo sobria ed estremamente elegante: non si notano mai eccessi di alcuna sorta, né la volontà da parte di nessuno di prevalere sugli altri, ma tutto risulta equilibrato e sempre ben misurato.
Questo grazie anche al mixing, che sottolinea ancora di più l’enorme mole di lavoro svolta dal quartetto di Riverside: i suoni sono puliti, ben calibrati e, soprattutto, naturali, veri.

Questa è una di quelle opere che, volenti o nolenti, tutti dovrebbero ascoltare almeno una volta. Forse è ancora presto per parlare di capolavoro, ma sono indubbie le immense capacità espressive che il gruppo ha dimostrato di possedere. “The Burial Tree (II)” riesce nella difficilissima impresa di mettere d’accordo un ampio ventaglio di ascoltatori, pur senza però risultare poco spontaneo.
Se siete alla ricerca di qualche cosa di nuovo, che sappia emozionare e che sia finalmente sincero, non fatevi scappare questo full-length, potreste rimanerne stupiti.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- Ash-Shahid (06:25)
02- Emago (04:32)
03- Monody (07:02)
04- In the House of Distorted Mirrors (05:43)
05- Thaumatrope (04:07)
06- Bathos and the Iconoclast (02:20)
07- The Zephirus Circus (02:52)
08- Jeremiad (00:18)
09- Apoptosis (01:41)
10- Parasites (06:06)
11- Paedophilanthrope (02:44)
12- Fragment (01:36)
13- The Blackening (07:43)
14- The Collector (09:15)

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