Recensione: The Far Star

Di Daniele D'Adamo - 1 Novembre 2019 - 0:01
The Far Star
Band: Apotheus
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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80

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Death metal? Progressive metal? Progressive death metal? Sì, si sa, sono definizioni per tentare di catalogare – chiodo fisso dell’Umanità – qualcosa di invisibile. Qualcosa che è percepito dagli apparati acustici come musica. Cioè, arte. Cioè, soggettività. Il che contrasta, appunto, con la mania di inquadrarla entro nomenclature oggettive.

I generi e sottogeneri citati non sono lì per caso. Provano a catalogare, brutto verbo, lo stile che identifica gli Apotheus che, con il loro secondo full-length, “The Far Star”, mettono anzitutto pressione alle meningi per comprendere in quale filone inserirli.

La teoria afferma che, dal punto di vista enciclopedico, non esistono i generi spuri. O si tratta di death, o si tratta di progressive. Senza vie di mezzo. Un modus operandi concepito per non disperdere in mille sottotipi le migliaia di gruppi che operano nel campo del metal. Tuttavia, ci sono le eccezioni. Come nel caso in ispecie. Gli Apotheus, difatti, non mischiano due tipologie distinte ma le trattano separatamente, ben distinte, come entità dissimili che si incollano l’una all’altra senza perdere mai la loro identità. In tal senso, allora, è plausibile appioppare il termine progressive death metal a una formazione non a caso atipica, lontana dai soliti cliché, in grado di realizzare un disco il cui segno distintivo principe è la singolarità.

Tutto quanto sopra, forse noiosamente, è necessario – almeno a parere di chi scrive – per poter dare l’idea, a parole, di che pasta sia fatto il disco di cui trattasi. Un disco sì, di progressive death metal ma che, a naso, pende leggermente verso il death (o meglio, melodic death), con che la conclusione del definitivo inserimento nel genere-madre suddetto (‘The Pull of Plexeus’).

Il lungo preludio strumentale, ‘Prelude’, appunto, morbido e suadente come il più bello dei sogni, arricchito da cori femminili, orchestrazioni e frasi narrate, dà immediatamente l’idea di un lavoro sopra le righe. E ‘Caves of Steel’, magnifica apertura metal, disegna subito le sue forme con il growling potente di Miguel Andrade, perfettamente leggibile, alternato a linee vocali melodiche. Il lavoro delle chitarre è duro, possente, a tratti imperioso, pensato apposta per cozzare con le eccellenti melodie elaborate dal combo portoghese. Qui si descrive una sola canzone ma è come se si descrivesse l’intero LP. La bravura degli Apotheus è tanta, e consente di godere appieno ciascun brano come se fosse una pietra preziosa incastonata nella roccia più pura. ‘Redshift’, e di nuovo le chitarre a dettar legge – sia per la parte ritmica, sia per quella solista – supportate da tappeti di tastiere sui quali Andrade tratteggia le sue  ottime vocalizzazioni, eccellenti in ogni dove. Un’unione assolutamente vincente, quella di Andrade-cantante con Andrade-chitarrista e Tiago Santos. Un nucleo le cui particelle elementari principali, appena menzionate, roteano su se stesse con gran retaggio. E qui non si può non sottolineare, di nuovo poiché ne vale davvero la pena, l’originalità di un sound ricco di maturità, dalle mille sfaccettature colorate a tinte pastello, vincente nel suo proporre l’incastro, non la fusione, fra death e progressive.

Con una classe così, va da sé che anche le canzoni siano di altissimo livello. Ciascuna di esse propone l’ossimoro death/progressive o meglio morbidezza/durezza, rispettando appieno, pertanto, lo stile inventato dall’act di Paços de Ferreira. Il songwriting, esplosivo, è propedeutico di tracce ricchissime di musica e di mille particolari che si possono estrarre solo dopo ripetuti e insistiti ascolti che, al contrario di quanto troppo spesso accade, non inducono nemmeno a un accenno di noia. Anzi. Ogni viaggio da ‘Prelude’ a ‘A New Beginning’ è un pellegrinaggio che rivela sempre, e con costanza, qualcosa di nuovo, di non ancora messo a fuoco. Le armonizzazioni si sprecano quasi, talmente sono tante ma, soprattutto, mai sdolcinate o sciroppose. O, peggio, concepite per un mercato mainstream.

Al contrario, “The Far Star” è un’opera principalmente per veri intenditori dal palato fine, dotati di un solido retroterra culturale in materia  metallica. Solo così, infatti, si possono cogliere le decine di chicche che, come tesori nascosti, saltano fuori dal platter per accarezzare gli orecchi più esperti, scevri da pregiudizi.

Apotheus: una grande band. “The Far Star”, un grande album.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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