Recensione: The IVth Crusade

Di Michele Carli - 24 Novembre 2005 - 0:00
The IVth Crusade
Band: Bolt Thrower
Etichetta:
Genere:
Anno: 1992
Nazione:
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90

I Bolt Thrower possono essere considerati come dei veri e propri pilastri per quanto riguarda quel tipo di death metal pesante, quadrato, senza molto spazio per le velocità folli ma molto più ricco di contenuti per quanto riguarda le atmosfere, la qualità delle costruzioni e delle sensazioni date all’ascoltatore. Un gruppo che si ama o si odia, questo è vero, quanto è vero che la carriera di questa formazione storica in azione dalla seconda metà degli anni ottanta sia stata per lo più ignorata dalla stragrande maggioranza del pubblico.

Dopo il colpo assestato con il (quasi) indiscusso capolavoro del gruppo, ovvero quel pezzo di puro e semplice death metal chiamato
Warmaster del 1991, i Bolts cercarono di bissare il successo con il quarto album, la quarta crociata dei cinque di Coventry, centrando il bersaglio in pieno portando avanti il percorso stilistico scelto con l’illustre predecessore e distanziandosi sempre di più dal sentiero battuto del grindcore delle origini per crearne uno nuovo, personale e seminale, seguito ancora oggi.
Già dalla prima traccia si notano l’assenza di blast beats e la semplice bellezza delle parti di chitarra della navigata coppia
Gavin Ward/Barry Thompson, vero trademark del gruppo, che trascinano l’ascoltatore in un vortice lento e inesorabile diretto verso gli anni delle Crociate, su cui sono incentrati gran parte dei testi. La prestazione lodevole di
Karl Willetts, poi, contribuisce in maniera enorme alla compattezza del lavoro, con quel suo timbro basso e corposo fin troppo adatto alla solennità del concept. Continuando con le tracce, tra cui la bellicosa
Where Next To Conquer e la splendida Spearhead, si percepisce chiaramente che nella scrittura del disco niente sia stato lasciato al caso, e tutto sia rivolto a creare quell’alone di lenta avanzata di una nutrita schiera di soldati in formazione serrata, dovuto anche al lavoro marziale del batterista
Andy Whale, coadiuvato dal basso di Jo Bench (che tra l’altro è stata una delle prime donne ad entrare in un gruppo di metal estremo) con un modo di suonare scontato e “ignorante” che calza al gruppo come un guanto. Abbandonati gli scatti furiosi degli esordi, la struttura che dona alle tracce si basa soprattutto sulla doppia cassa quasi onnipresente e su ritmi medio lenti senza alcun virtuosismo, senza però togliere momenti da headbanging selvaggio.
La produzione è abbastanza buona, con suoni piuttosto chiari anche se in alcuni punti le chitarre ribassatissime tendono ad amalgamarsi e quindi a perdere di precisione. L’assenza di parti intricate o particolarmente tecniche, comunque, rende questo piccolo difetto alquanto trascurabile, se non, in certi casi, adatto alla struttura stessa delle canzoni.

Un disco, quindi, non immediato, ma ricercato e ispirato, a suo modo epico e creato da un gruppo di musicisti che con poche note semplici ma di impatto hanno donato al vasto panorama del death metal vecchia scuola, una delle sue perle nere più splendenti e nascoste.


Tracklist:

1. IVth Crusade
2. Icon
3. Embers
4. Where Next to Conquer
5. As the World Burns
6. This Time It’s War
7. Ritual
8. Spearhead
9. Celestial Sanctuary
10. Dying Creed
11. Through the Ages (outro)

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