Recensione: The Land of New Hope

Di Luca Montini - 18 Maggio 2013 - 0:00
The Land of New Hope
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« O brave new world that has such people in’t! »

A seguito delle ormai note vicende che hanno visto Timo Tolkki abbandonare gli Stratovarius, per il chitarrista finlandese si sono susseguiti anni raminghi di peregrinazioni quasi schizofreniche e di grandi naufragi artistici: dai Revolution Renaissance ai Symphonia, passando per vari progetti solisti come “Saana – Warrior of Light”. Proprio durante i lavori, ora interrotti, di “Classical Variations and Themes II: Credo” (sic!), Frontiers Records ha contattato il Tolkki per proporgli una metal opera in tre episodi. Challenge accepted.
Utopia nella distopia, “The Land of New Hope” è l’opera prima dei Timo Tolkki’s Avalon ed al contempo l’ultimo capitolo della trilogia: una storia narrata a partire dall’epilogo, alla quale presto seguiranno i capitoli precedenti. Un’opera permeata di pessimismo antropologico, ma che dal titolo annuncia, come in un viaggio nei meandri remoti del Vaso di Pandora, la ricerca di una nuova, ineffabile speranza.

Anno 2055: gran parte delle più grandi città del pianeta Terra sono state sommerse dagli tsunami o devastate dai terremoti e dal fuoco. Ogni infrastruttura di comunicazione è ormai inutilizzabile. La distruzione è totale.
Un manipolo di sopravvissuti parte per un viaggio alla ricerca di un luogo sacro, chiamato “La Terra della nuova Speranza”. È una vecchia leggenda narrata da decenni, ma solo in pochi ad oggi credono davvero nella sua esistenza. I nostri eroi intraprenderanno un lungo viaggio irto di pericoli; essi incontreranno una veggente che li guiderà e spiegherà loro che il luogo sacro che stanno cercando esiste davvero, ma che è sorvegliato da un Custode. Solo coloro i quali hanno un cuore puro possono oltrepassarlo. Il loro viaggio prosegue verso il destino finale…

I nostri eroi in viaggio, illustrati nell’atto di allontanarsi da una città devastata dai cataclismi nell’artwork di Stanis W. Decker, rendono giustizia alla citazione di Miranda ne “La Tempesta” di Shakespeare con la quale ho aperto questa recensione. I nomi dei convocati per interpretare quest’opera sono il massimo (o quasi) che un autore di metal opera possa desiderare: Michael Kiske (Unisonic, ex Helloween), Elize Ryd (Amaranthe), Rob Rock (Impellitteri), Russell Allen (Symphony X), Sharon Den Adel (Within Temptation) e Tony Kakko (Sonata Arctica), ai quali aggiungeremo ben tre tastieristi: Jens Johansson (Stratovarius), Derek Sherinian (Black Country Communion, ex Dream Theater, ex Malmsteen) e Mikko Härkin (Sonata Arctica). Chiude la corposa lineup il quotatissimo batterista Alex Holzwarth (Rhapsody of Fire). Ma come gli errori del recente passato insegnano: non bastano ingredienti di qualità per produrre un buon lavoro. Il chitarrista finlandese avrà imparato la lezione?

Incipit da brividi nel primo minuto tra orchestrazioni, solo di chitarra e doppia cassa: l’inno “Avalanche Anthem” colpisce per l’insolito ritornello, con un un groviglio nelle strofe di Rob Rock e Russell Allen in ottima forma e qualche sporadico intervento di Elize Ryd. Entrati nell’atmosfera del distopico 2055, inizia il viaggio con “A World Without us”, secondo singolo dell’album: un manifesto del power metal tolkkiano. Riff inconfondibile, crescendo sulla strofa dei tre interpreti già citati ed ispiratissimo ritornello con doppia cassa. Intermezzo di piano ed assolo neoclassico prima della chiusura.
Enshrined in my Memory”, primo singolo dell’album, è un pezzo pop-rock da quattro accordi più assolo che vede come protagonista principale la bella e brava Elyze Ryd, voce femminile degli Amaranthe e protagonista indiscussa di questa metal opera, nonché musa ispiratrice, immaginiamo, per la presente opera di Tolkki. Il tipico brano di musica leggera che “o lo ami o lo odi”. Struttura molto semplice e melodia che entra subito in testa.
Vellutata introduzione al pianoforte di “In the Name of the Rose”, brano che esplode in un ritornello bombastico ed orchestrale, per chiudere simmetricamente con l’atmosfera iniziale. Duetto tutto maschile tra Rob Rock e Toni Kakko in “We Will Find a Way”, brano anthemico e positivo che ci riporta in marcia verso la meta con un divertente riff ai limiti del folk.
Duetto ora al femminile tra la Ryd e Sharon degli Within Temptation, “Shine”, che ricorda da vicino la band appena citata o i lavori dei Nightwish di Annette Olzon. Il risultato è un mid-tempo diretto, melodico e trascinante che appassionerà i fan del gothic. Brusca accelerata con “The Magic of the Night” e via via sempre più veloci verso i confini del mondo con “To the Edge of the Earth”, con il solo Rob Rock sugli scudi sia in versione hard rock che in vesti power metal, rispettivamente nel primo e nel secondo brano. Momento di nostalgia nella melanconica ballad “I’ll sing you home”, dell’ormai padrona di casa Elize Ryd: un pezzo che starebbe bene come main theme nella OST di qualche produzione hollywoodiana. Titletrack in chiusura, “The Land of New Hope”, cantata dalla voce di di Michael Kiske. Qui l’autore prova a scimmiottare le sonorità di “Keeper of the Seven Keys” con risultati poco rassicuranti, purtroppo lontani anni luce dal brano appena citato. Una lunga suite finale un po’ ripetitiva, priva di quel quid che rende un brano comunque discreto il degno “gran finale” dell’ascolto. Peccato. Discorso a parte per la performance di Kiske, sempre eccellente, che a quanto pare potrebbe cantare la lista della spesa facendone comunque uscire un capolavoro.

In definitiva, “The Land of New Hope” è una buona release che trascende gli ultimi, frammentari lavori del Tolkki e sembra voler donare nuova linfa vitale alla produzione del virtuoso finlandese, pur non essendo esente da difetti.
Peccato per la poca originalità di alcuni episodi, spesso fin troppo easy listening ed incentrati sul ritornello immediato piuttosto che per la ricercatezza delle soluzioni, per la storia un po’ scontata e per una strana sensazione di déjà vu che ogni tanto si palesa durante l’ascolto: emblematico è già il monicker dal sapore arturiano “Avalon”, che richiama, impavido, quello di “Avantasia” – quest’ultimo sintesi di “Avalon” e “Fantasia”. Il tutto aggravato dalla release a solo due mesi di distanza dall’ottimo “The Mystery of Time”, nei confronti del quale è fin troppo facile fare banali paragoni. Un po’ piatta la batteria del poco sfruttato Alex Holzwarth, ed un po’ in secondo piano i tre tastieristi. Anche la scelta del dream team è poco coraggiosa; parlando di metal opera Michael Kiske è membro fisso dei già citati Avantasia, Rob Rock ha partecipato ai primi due album di AvantasiaSharon Den Adel ha cantato con Ayreon ed Avantasia, ed infine Russell Allen ha militato in Star One e (indovinate!) Avantasia. Va riconosciuta, d’altro canto, la prova superlativa della “battezzata” al mondo delle metal opera: la carismatica Elize Ryd.

Seppure l’opera presenti ancora ampi margini di miglioramento, sembra che Timo Tolkki abbia imboccato la via per la Terra della Nuova Speranza, sia nella metafora dell’intreccio narrativo che nella più concreta attività di compositore e musicista: abbiamo vissuto con lui, accompagnati da un manipolo di eroici e talentuosi prescelti, un periglioso viaggio lungo dieci brani. Chissà cosa ci riserverà il futur… ehr… il passato?
Dal 2055 è tutto, appuntamento al prossimo episodio!

“We will find at any cost
the beauty that was lost.
So into the brave new world we go…”

Luca “Montsteen” Montini

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