Recensione: The Liberation

Di Claudia Gaballo - 24 Dicembre 2019 - 5:54
The liberation
Band: Disillusion
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2019
Nazione:
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85

I Disillusion sono una di quelle band che fa poco ma bene. Dalla formazione nel 1994, infatti, il gruppo progressive tedesco ha prodotto solo due demo e tre full-lenght, riuscendo tuttavia a guadagnarsi un nome nella scena internazionale e a circondarsi di una solida fanbase. A rendere incredibili questi risultati è il fatto che nel corso degli anni la line-up è stata così frammentata che l’unico vero “Disillusion” può considerarsi il fondatore e polistrumentista Andy Schmidt. Il primo album “Back To The Time Of Splendor” (2004) venne considerato dalla critica un importante pezzo di progressive death metal; mentre “Gloria” del 2006 è visto da alcuni come una deviazione un po’ troppo sperimentale, godendo comunque di un buon apprezzamento. Per oltre dieci anni la band ha vissuto di alti e bassi, con una lunga interruzione di attività che ha poi portato alla rinascita con questo “The Liberation”.

“Rinascita” e “liberazione” sono i termini più adatti per descrivere quest’opera. La prima cosa che notiamo è un ritmo ondeggiante, che passa da impetuoso a epico a romantico con estrema naturalezza, senza mai appesantire o forzare l’ascolto. Rimanendo sempre nell’ambito del progressive metal, la band non si preclude veri e propri momenti sinfonici, come nella traccia iniziale ‘In Waking Hours’ e in quella finale ‘The Mountain’. Troviamo inoltre dei passaggi epici e cinematici che sembrano strizzare l’occhio al power; la stessa ‘In Waking Hours’ sarebbe una perfetta colonna sonora.

Nonostante la bella introduzione, il disco ci mette un po’ per mostrarsi in tutto il suo splendore. I primi 12 minuti di ‘Wintertide’ infatti, benchè tecnicamente impeccabili, non risaltano come dovrebbero e forse sarebbero dovuti essere posizionati più avanti nella tracklist. Questo però non sarebbe stato possibile, perché “The Liberation” è anche un’opera concettuale, con testi narrativi e descrittivi così dettagliati che ci si chiede come sia possibile questa perfetta armonia con la musica. Anche ‘The Great Unknown’ è un pezzo oggettivamente perfetto ma che non rimane particolarmente impresso; qui inizio già a pensare che questo album sia sì una produzione di alta fascia ma senza quel twist necessario a rimanere nella memoria.

È con ‘A Shimmer In The Darkest Sea’ che le cose cambiano: questo brano è un po’ più lento degli altri ma raggiunge picchi di epicità creando un’atmosfera che si sposa perfettamente con la malinconia del testo. E questo è il preludio perfetto per l’omonima ‘The Liberation’, traccia centrale dell’album, la più bella e anche la piu cinematica. Sarà un paragone inglorioso, ma la prima parte mi ha subito portato alla memoria ‘Beelzebooss (The Final Showdown)’ dei Tenacious D, che nel film “Il Plettro Del Destino” è interpretato da un Dave Grohl in forma di diavolo. L’idea di inferno e tormento è proprio quello che questa parte del pezzo vuole esprimere, riuscendoci perfettamente. Verso il quinto minuto si parte verso porti sconosciuti e il ritmo rallenta pacifico, riportando in maniera quasi visiva il viaggio che viene narrato. Nella parte finale sembra quasi ci sia una battaglia tra queste due anime, battaglia che si conclude con dell’amaro in bocca. ‘Time To Let Go’ è il perfetto seguito, un brano in cui l’idea di “lasciar andare” viene tradotta in musica, accompagnata da parole sempre malinconiche ma più rassicuranti. Come già anticipato, l’album si chiude con ‘The Mountain’, una mini opera dove death e symphonic si alternano per 12 minuti, plasmando anche qui non solo musica ma anche immagini. Una conclusione semplicemente imponente.

Se fino a qui non fosse stato chiaro, etichettare “The Liberation” come un disco progressive death metal sarebbe riduttivo, perché accoglie contaminazioni diverse dando vita a un’opera più ampia, con spunti letterari e visivi. Se per avere un album del genere abbiamo dovuto aspettare tredici anni, possiamo dire che l’attesa è stata premiata; e viene anche da chiedersi perchè altre band preferiscano sfornare un disco mediocre ogni due anni, piuttosto che puntare sulla qualità a lungo termine.

Questo è uno di quei casi in cui una recensione non può fare molto, meglio investire un’ora del proprio tempo nell’ascolto di quest’opera.

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