Recensione: The Six Elements, Vol. 1 Earth

Di Alessandro Calvi - 7 Luglio 2014 - 9:30
The Six Elements, Vol. 1 Earth
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Anno: 2014
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78

La musica classica, nel metal, è ormai una consuetudine. Non vi è rimasto praticamente nessun genere, dal power, al gothic, fino al black, che non abbia avuto, prima o poi, qualche contaminazione con la musica classica, lirica o sinfonica. Il motivo, ovviamente, è da ricercarsi nel tentativo, da parte dei musicisti, di dare maggiore spessore, maggiore magniloquenza, alle proprie composizioni. I risultati, altrettanto naturalmente, sono stati altalenanti, andando da buone e ottime cose, ad altre decisamente rivedibili. Merito, o colpa, del background dei musicisti stessi, più o meno portati a cimentarsi con un genere tanto diverso e così ricco di storia.
Ma cosa succederebbe se, per una volta, qualcuno facesse il percorso inverso?
La risposta è proprio in questo album d’esordio autoprodotto dei Dawn of a Dark Age: “The Six Elements, vol. 1 Earth”. Eurynomos, infatti, vero e proprio deus-ex-machina di tutto il progetto, autore di tutte le musiche e di tutti i testi, ha un passato che, teoricamente, poco sembra centrare con il metal, soprattutto con il black. Laureato in conservatorio, dal 1999 fa parte dell’Orchestra Sinfonica del Molise (con cui ha suonato in concerto in tutta Europa), ha suonato come solista con l’Orchestra Sinfonica di Udmurtia (Russia), è autore di diversi dischi di musica jazz e un curriculum che può vantare svariate collaborazioni ai più alti livelli di questo genere.

Con un simile background, però, probabilmente non ci si poteva aspettare che questo disco fosse un una-tantum. Un tentativo fine a sé stesso, un esperimento destinato a non avere seguiti. E, infatti, come anche il titolo lascia presagire, si tratta solo del primo tassello di una vera e propria epopea, destinata ad essere completa in ben 6 capitoli. Tutti già praticamente scritti e, in parte, anche già registrati, che vedranno la luce a tappe forzate in un tempo che, per gli standard del mercato, è estremamente breve. Ogni sei mesi (6 capitoli, uno ogni 6 mesi, anche i numeri hanno evidentemente un significato) si vedrà l’uscita di un nuovo elemento, in tutti i sensi, dato che dopo l’esordio con la Terra, seguiranno Acqua, Aria, Fuoco, Spirito e un ultimo ancora non rivelato.
Visto che la gran parte del lavoro è già stata fatta nel corso degli scorsi anni non crediamo che uscite così ravvicinate possano andare più di tanto a scapito della qualità, ma speriamo comunque che Eurynomos e soci si prendano il giusto tempo per le registrazioni, gli adattamenti e, perché no, anche le aggiunte che dovessero loro venire in mente, al fine di consegnare alle nostre orecchie il miglior prodotto possibile.

Ma passiamo, finalmente dirà qualcuno, a parlare del disco vero e proprio e di quello che si può sentire una volta schiacciato il tasto play.
Si inizia con un ritmo di tamburi, quasi tribale, trascinante, forse più vicino a certe sonorità folk, ma lontano anni luce dal solco di quel raw black metal in cui i Dawn of a Dark Age si collocano. L’intro di percussioni, però, viene ben presto interrotta bruscamente dall’ingresso delle chitarre e qui si vede che il gruppo ha fatto bene i compiti a casa. Sarebbe stato facile, oltre che condivisibile, per un disco autoprodotto, optare per delle registrazioni povere, confuse, con chitarre zanzarose, giustificando il tutto con la scelta di rimanere vicini alle sonorità degli albori del black. Invece, Eurynomus e soci hanno preferito seguire l’esempio di alcuni dei nomi storici dei primi anni (come Mayhem e altri), che hanno saputo interiorizzare le nuove tecnologie pur senza perdere lungo la strada quel sound gelido e inquietante che aveva contraddistinto le prime registrazioni di questo genere.
Il risultato finale è un album prodotto in stile moderno, con tutti gli strumenti che si sentono bene, senza errori di mixaggio esuoni che si sovrappongono ad altri nascondendoli, o un onnipresente e invadente rumore di fondo. Al contempo, però, l’effetto generale è quello straniante, gelido, alieno, che si poteva respirare ascoltando i primi vagiti del black negli anni ’90.
Un effetto studiato e realizzato grazie non solo ai suoni degli strumenti, ma anche andando a pescare al di fuori del bacino del metal (e visto il discorso fatto sulle esperienze e il background musicale del compositore, non poteva essere da meno), ad esempio nelle composizioni e negli esperimenti di musica cacofonica di Krzysztof Penderecki. Prova ne è il duetto/scontro tra sax alto e baritono nel finale di “Raped Earth”, che tanto ricorda i fiati di “De Natura Sonoris Nr. 2” o gli archi dissonanti di “Polymorphia” (due delle opere per cui è più conosciuto il compositore e direttore d’orchestra polacco, che a loro volta hanno aiutato non poco a render alquanto più inquietanti film come “Shining” e “L’Esorcista”).
Ma molti altri son i riferimenti esterni al metal che contribuiscono ad arricchire questo lavoro, pur senza mai tradire lo spirito puramente black del disco. Non stiamo, infatti, parlando di un album con derive avantgarde o progressive, al contrario “Earth” è un CD estremamente vicino a quel raw black metal delle origini, sia come impostazione che come attitudine. Al contrario dei dischi degli esordi, però, è estremamente più ricco di soluzioni, strumenti e suggestioni. Ciò che, apparentemente, sembrerebbe del tutto fuori luogo, come i clarinetti di “The Last Prayer”, è perfettamente amalgamato nel songwriting e non stona minimamente, andando solo a allargare il panorama sonoro dell’opera.
In definitiva potrebbe essere questo il modo migliore per descrivere questa prima uscita dei Dawn of a Dark Age: black metal, ma con una marcia in più.

Prima della classica chiosa finale, un piccolo inciso: dietro allo pseudonimo di Eurynomos si cela il nostro Vittorio “Versus” Sabelli, per lungo tempo utente del forum di TrueMetal e, da qualche tempo, passato dall’altro lato della barricata come redattore. Ci rendiamo conto che recensire il disco di un membro della redazione, soprattutto se in maniera così positiva come in questo caso, possa apparire agli occhi di qualche malelingua come una sorta di conflitto d’interessi, ma sarebbe stato un grave sgarbo ai nostri lettori non farlo. Al contempo, scrivere questa recensione si è rivelata una impresa tutt’altro che semplice, complici da una parte il tentativo di rimanere quanto più possibile oggettivi, dall’altra l’estrema complessità dell’album stesso. In definitiva, dunque, sarebbe stato molto più semplice e facile soprassedere, si sarebbero evitate possibili polemiche, oltre a ore di fronte al pc a rimuginare su ogni singola parola. Ma questo disco merita un ascolto, fidatevi.

Per concludere, questo primo capitolo dell’esalogia, nonché esordio discografico dei Dawn of a Dark Age è sicuramente una più che piacevole sorpresa. Certo, qualche incertezza e qualche ingenuità è possibile riscontrarla qui e là, per quanto il curriculum dei musicisti coinvolti sia impressionante, infatti, si tratta pur sempre di un’opera prima in un genere, a loro, quasi del tutto nuovo. Ciò che colpisce maggiormente, però, è il notare come una attitudine completamente diversa può spalancare, ancora oggi, scenari del tutto nuovi in un genere, come il black, che sembrava ormai aver detto tutto. Non parliamo di contaminazioni, di aggiungere qualcosa alla base black originale (come fanno ormai da anni quasi tutti i gruppi: dalla musica sinfonica al punk-rock all’elettronica; non che ci sia nulla di male, al contrario certi sincretismi sono stati veramente ottimi), ma di cambiare alla radice i presupposti su cui fare, scrivere e suonare black. Non si tratta di un capolavoro, non ancora, ma è certamente un primo passo verso qualcosa di nuovo e di diverso che consigliamo a tutti di ascoltare.

Alex “Engash-Krul” Calvi

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