Recensione: The Tritonus Bell

Di Matteo Pedretti - 13 Settembre 2021 - 6:00
The Tritonus Bell
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Death  Doom 
Anno: 2021
Nazione:
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80

Lasse Pyykkö, fondatore e mente degli Hooded Menace – una delle realtà più consolidate del panorama Doom/Death finlandese e mondiale – è nato nel 1974: non stupisce quindi che sia cresciuto a pane e ‘80 Heavy Metal, a suon di Accept, Iron Maiden, W.A.S.P. e Judas Priest. Più sorprendente, invece, è la scelta di inserire tale retaggio in misura molto più massiccia ed evidente rispetto al passato in “The Tritonus Bell”, l’ultimo album del combo finlandese uscito a fine agosto su Season of Mist, etichetta francese impegnata da ormai 25 anni nella promozione del Metal estremo nelle sue svariate forme.

Ma procediamo con ordine. Gli Hooded Menace si formano a Joensuu, capitale della Carella settentrionale, nel 2007. Benché non siano mai stati una one man band, Lasse Pyykkö, che ne è da sempre il mastermind, ha avuto modo di occuparsi non solo di chitarra, basso e songwriting, tutt’ora di sua responsabilità, ma anche della voce. Completano la formazione attuale, ormai consolidata da alcuni anni, il batterista Pekka Koskelo, presente sin dal 2009, il chitarrista ritmico Teemu Hannonen e Harri Kuokkanen (vocalist e drummer degli Horse Latitude, altra interessante realtà Doom di Helsinki) che nel 2016 è subentrato a Lasse dietro al microfono, lasciandolo libero di concentrarsi completamente sulla sei corde.

Negli ultimi anni 14 anni Pyykkö, senza rinunciare a progetti paralleli (su tutti le apparizioni in veste di cantante nell’LP d’esordio e nel successivo EP degli stoner/doomster di Detroit Acid Witch) si è dedicato anima e corpo agli Hooded Menace, dando alle stampe 5 album su label di primissimo piano come Profound Lore Records, Relapse Records e la già citata Season of Mist, un paio di EP e una notevole quantità di Split. Lo stile di queste release è un Doom/Death ispirato tanto alle cose più lente di Asphix e Autopsy quanto ai lavori di Candlemass, Winter, Cathedral e dei primi Paradise Lost, in cui sinistri riff downtuned e prevalentemente downtempo lasciano occasionalmente spazio a sfuriate Death, su cui un growl che sembra provenire direttamente dall’oltretomba narra le storie di orrore che costituiscono i testi.

Con il nuovo “The Tritonus Bell”, il loro sesto full lenght, gli Hooded Menace, hanno probabilmente messo a segno il capitolo più aggressivo della loro della carriera. Ciò dipende dal fatto che i ragazzi, pur non accantonando il proprio marchio di fabbrica, hanno spinto sull’acceleratore, suonando in generale più velocemente. Altro elemento di discontinuità con la discografia precedente è, come si diceva nelle righe introduttive, la maggiore apertura all’ Heavy Metal classico, con tanto di fraseggi melodici e twin guitar, che va ad arricchire e rendere più interessante l’intelaiatura Doom/Death, che rimane comunque predominante.

L’incipit di “The Tritonus Bell” è affidato alla breve intro strumentale “Chthonic Exordium” nel cui finale una voce ctonia – come recita il titolo della traccia – apre la strada a “Chime Diabolicus” e alla successiva “Blood Ornaments” che mostrano strutture piuttosto simili: partenze veloci, all’insegna dell’‘80 Heavy Metal, dopo qualche giro lasciano spazio a un Doom/Death sulfureo dai growl profondissimi, ma con chitarre non prive di una certa componente melodica, che a più riprese si lascia andare a nuove accelerazioni. Nelle pesantissime parti lente trovano spazio anche atmosfere rituali ed epiche, sintetizzando alla perfezione il connubio tra Candlemass e Asphix.

Si procede senza tregua con “Those Who Absorb the Night” che, priva delle cavalcate delle tracce precedenti, si basa sull’interazione tra riff mortiferi e fraseggi melodici di stampo Metal tradizionale ricamati dalla chitarra solista, svelando tutto l’amore del gruppo per il Doom epico; gli stacchi di batteria determinano una certa dinamicità, raggiunta anche grazie ai numerosi cambi di riff. “Corpus Asunder”, in cui i rallentamenti si fanno più sporadici, rimane su ritmi relativamente sostenuti per gran parte della sua durata, con la scarica Death della sezione centrale su cui va ad innestarsi un assolo di chitarra degno di nota.

Nei quasi 10 minuti di “Scattered into Dark” i quattro ripropongono gli stilemi del proprio back catalogue, propinando un macigno Doom in cui solo le melodie di chitarra riescono ad alleggerire un po’ il senso di oppressione di cui è pervaso. Il finale, che rallenta ulteriormente, prende una svolta decisamente atmosferica grazie al canto gentile della guest vocalist Jemma McNulty e alle chitarre che sono le vere protagoniste di “Instruments of Somber Finality”, l’outro strumentale dal sapore classico che chiude il disco.

La produzione, sobria e curata, consegna un sound fragoroso e ben più cristallino di quanto ascoltato in precedenza, decisamente adatto all’approccio più tradizionale abbracciato dai Nostri per l’occasione. Una nota ironica (per un disco che non potrebbe essere più distante dal concetto di ironia) per la fotografia centrale del booklet che ritrae i musicisti in una foresta, giusto per non venire meno al luogo comune che vuole le foreste finlandesi infestate di band Metal intente a realizzare i propri servizi fotografici.

È notevole come gli Hooded Menace, dediti a un sottogenere tanto estremo e in linea di massima poco permeabile a suggestioni di altra natura, dopo tanti anni abbiano saputo rinnovare la propria proposta senza snaturarla, ma rendendola più varia, dinamica e interessante, potenzialmente appetibile anche per i fruitori di Metal estremo non necessariamente fanatici del Doom/Death in senso stretto.

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