Recensione: Torment

Di Andrea Poletti - 20 Febbraio 2017 - 7:00
Torment
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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49

Six Feet Under bla bla bla…

Chris Barnes bla bla bla…

Cannibal Corpse bla bla bla…

Introduzione finita e questo disco, nomen omen, è un “Torment”-o nel vero senso della parola. Esistono gruppi dei quali sai già in partenza che comporranno un nuovo grande album, anche senza sentirlo lo si compra sulla fiducia, esisitono anche gruppi che sai già a priori che non comporranno nulla di valido anche se l’impegno sarà dalla loro. Una terza categoria, entro la quale risiedono i Six Feet Under, è formata da quelle band dalle quali non sai proprio cosa aspettarti perchè ad ogni nuova uscita potrebbero regalare emozioni o comporre l’ennesimo aboniomio, a prescindere dal genere suonato. Presa coscienza di questo aspetto, confermiamo nero su bianco come questo nuovo, dodicesimo, album in studio dei deathster sia uno dei punti più bassi mai raggiunti dal death metal mondiale. Non è un album ciofeca stile Rings of Saturn, Mortician o Abominable Putridity dove a dispetto delle note suonate non vi si riesce a trovare un senso, “Torment” ha grandi lacune di base: non ha anima, non ha passione ed è considerabile come l’ipotetico titolo di coda, l’addio definitivo ad un gruppo che ad oggi non rilascia un disco decente da molti, molti anni. Una band finita.

Veniamo ora al discorso prettamente musicale che vede, a dispetto della formazione ufficiale, in Barnes l’unico compositore e mente dietro l’intero progetto, come da prassi. Avere musicisti di media-alta qualità all’interno del proprio organico quali Hughell (ex Vile) e Pitruzzella (ex di Vital Remains e Faceless) potrebbe essere una valida risorsa per porvare a sperimentare negli arrangiamenti, o ricreare un sound interno al gruppo oramai stantio e poco incline alla progressione tecnica. Si riesce a comprendere perfettamente come i ragazzi inseriti nel progetto non abbiamo voce in capitolo, poichè v’è un senso di abbandono, l’estinzione del concetto stesso di death metal portato ad un minimalismo sonoro fin troppo preoccupante, dove ogni riff pare essere ancora oggi in modalità demo. Cosa giri all’interno della testa del buon Chris per voler forgiare discutibili tracce quali l’iniziale ‘Sacrificial Kill’, con il suo ritmo monocorde e una verve quasi nu-metal, la terza ‘The Separation of Flesh from Bones’ con quel mid-tempo fastidioso e controproducente o l’orrida ‘Knife Thorught the Skull’ attraverso la versione gretta del pop commerciale non è dato a sapersi. Mistero della fede. Di spunti validi ne riusciamo a trovare qui e la, tracce quali ‘Exploratory Homice’ con una serie di ottimi riff old-school o ‘Schizomaniac’ e il suo feeling anni 80, danno una speranza al disco, ma sono episodi fini a se stessi che buttati dentro un calderone amorfo e senza forza di volontà non incutono nemmeno curiosità per un ulteriorie passaggio in cuffia. La seconda parte del disco vive su una sequenza di canzoni che non hanno senso d’esisitere, inconcepibili anche dentro il demo-tape della band di sedicenni in preda al fascino passeggero del metallo pesante; ‘In the Process of Decomposing’ sembra la versione death metal dell’hip-hop pseudo-gangsta-rapp da strada, facile anche da ballare con tre birre in corpo, con ‘Funeral MaskBarnes ci ricorda il suo amore incondizionato per l’heavy d’annata, con la struttura compositiva di casa Judas Priest presa per il collo, maltratta e lanciata in mezzo al bollitore di vacue idee. A dispetto della singla canzone, che in fin dei conti sono soggette al gusto personale ma pur sempre sotto un giudizio oggettivo, ciò che spaventa di più oltre la poca ispirazione e la mancanta presenza di qualche valida realizzazzione è quella sensazione di presa per i fondelli, come sei i nostri trollino amaramente quel genere che il mastermind ha involontariamente plasmato e forgiato decadi addietro.

Una produzione mastodontica se proporzionata al prodotto qui presente, una ciurma molto propositiva guidata da un uomo in crisi d’identità non riesco a sottrarsi alla domanda “Ma ci siete o ci fate?”. Ancora più enigmatico è il continuo supporto da parte di molti fans, che data l’uscita incombente di Torment, non mancheranno di celebrare la band e complimentarsi su dodici brani che di norma prenderebbero il cestino dei rifiuti senza quel nome sulla copetina. La meritocraziona qui ha fatto un passo indietro.

Signori, signore, non ho altro da aggiungere ad un disco che è destinato a diventare un “50% discount” nel giro di qualche mese per poterne vendere qualche copia, la conferma definitiva che ad oggi i Six Feet Under non hanno più carte da giocare; la presa in giro definitiva e dodici tracce che non lascieranno altro che rabbia e rammarico per un progetto partito discretamente decadi or sono e finito non si sa bene dove. Credo che qualche domanda sia giusto porsela, ma visto il soggetto al timone, saranno pensieri sprecati; questa è l’estrema unzione.

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