Recensione: Unholy Trinity

“Unholy Trinity” è l’ultimo album dei Lord Belial e con questo sono dieci. Non male, come produttività, per una band nata nell’ormai lontano 1992. Lord Belial che, nonostante siano spesso dimenticati o sottovalutati, rappresentano al contrario una pietra miliare nel campo del black metal.
Anzitutto una grande esperienza di vita artistica, la quale copre un intervallo temporale di trentatré anni, ha consentito loro di osservare da vicino la variegate ramificazioni del genere principale. Si sottolinea osservate poiché Thomas Backelin e soci, membri originali – il che è già di per sé una rarità – , non hanno ascoltato il canto delle sirene per modificare né superficialmente né profondamente uno stile ben definito.
Stile che, a furia di piccoli ritocchi, è diventato il metro campione di un black metal che pesca nei dettami natii a piene mani, aggiornato certamente al tempi che corrono, ma che esprime una sorta di purezza che identifica un sound praticamente perfetto. Perfetto nel coniugare furia demolitrice e importanti aperture melodiche. Niente chitarre zanzarose o inserimenti ambient/elettronici o quant’altro di spurio, insomma, per una manifestazione di come debba essere, oggi, il black metal libero da fronzoli e orpelli.
A proposito di chitarre, Thomas Backelin e Niclas Pepa Green, assieme, erigono blocco dopo blocco uno sterminato muraglione di suono. Il riffing è complesso ma totalmente leggibile, incessante nel cucire una base ritmica spessa dei chilometri. Gli accordi, compressi e stoppati con la tecnica del palm-muting alla vecchia maniera, presentano un andamento iperbolico, nel senso che dalla suddetta base si diramano come saette le sezioni soliste che danno vita a una continua produzione di polvere dorata. Una contraddizione? No, dato che è proprio la commistione fra oscurità e fulgore uno dei segni caratteristici che definiscono in maniera univoca la proposta musicale del combo svedese.
Il poderoso avanzamento di “Unholy Trinity” è dovuto, però, al drumming Micke Backelin. Batterista preciso e pulito, pesta sodo il proprio strumento senza alcuna indecisione, percorrendo tutto quanto ci sia fra gli slow-tempo e i blast-beats (“Glory to Darkness“). Un lavoro senza sosta che regala una ritmica molto varia, complicata il giusto e, di nuovo, grazie a un’impeccabile produzione, percepibile con chiarezza in ogni suo pattern.
Se nulla si può dire della musica, si può trovare qualcosa di criticabile altrove. Le tematiche, difatti, sino quelle solite: satanismo, occultismo, morte, ecc. Un cliché adesso logoro, dato l’abuso che ne è stato fatto negli da centinaia se non da migliaia di band sparse per tutto il Mondo. Del resto, però, si tratta di un modo scrivere i testi coerentemente con le regole non scritte del black metal primigenio, che non inficia in alcun modo sul giudizio finale dell’LP.
Detto questo, le canzoni. Di nuovo, al contrario di act ove appare tutto uguale, esse compongono un insieme vario e ricco di sorprese. Segnale di un songwriting di alto livello, capace di inserire l’ultimo elemento fondante il modus operandi dei Nostri: la melodia. Onnipresente, in talune occasioni prende il sopravvento sul resto delle note per donare alle orecchie di chi ascolta brani di grande impatto emotivo, come la splendida “In Chaos Transcend“, trasudante toni drammatici, complementi ideali per sognare le stelle. La potente orchestrazione, mischiata alla strumentazione elettrica e agli splendenti assoli, dona momenti di estasi pura, tale da indurre a socchiudere gli occhi e a fantasticare di volare su incommensurabili vette innevate.
Incedere devastante, assoli taglienti, armonizzazioni avvolgenti, tecnica strumentale inappuntabile, sound lindo e pulito ma possente e a tratti travolgente, esteso retroterra culturale. Questi sono, in sostanza, i Lord Belial. “Unholy Trinity” è un’opera onesta e sincera, creata con passione e professionalità, che può offrire ai fan momenti davvero esaltanti. A patto di lasciare fuori dalla porta contaminazioni, evoluzioni, disparati sottogeneri: questo è black metal moderno. E basta.
Daniele “dani66” D’Adamo