Recensione: Unortheta

Di Francesco "Caleb" Papaleo - 21 Maggio 2016 - 16:40
Unortheta
Band: Zhrine
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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83

Gli Zhrine sono una di quelle band destinate, spero, a far molto parlare di sé e della propria musica, in particolare per quanto riguarda questo loro “primo” album. “Primo” tra virgolette, perché “Unortheta” non è realmente il loro primo disco. Nati con il nome di Gone Postal, e dediti a un death metal abbastanza canonico, seppur molto brutale, si sono poi svincolati da questo genere, cambiando prima nome in Shrine e in seguito nell’attuale Zhrine.
Il perché di questa scelta non è dato sapere, si tratta comunque di facezie oziose che fanno da contorno ai contenuti. Di questi ultimi, invece, se ne hanno talmente tanti, e di talmente alto livello, da esserne esausti.

Non si tratta, dunque, di un gruppo al suo esordio, bensì di una band composta da musicisti con già una solida esperienza alle spalle. Si capisce, dunque, come mai questo disco d’esordio risulti così maturo in tutti i suoi aspetti. La produzione, il mixaggio e tutto il concept di fondo lo portano ad essere, innanzitutto, un’opera estremamente complessa e sentita, difficile da riuscire a inquadrare nei ristretti confini di un genere solo.

Le fondamenta dell’architettura delle canzoni, nel loro complesso, si basano su di un corposo e magistrale blackened death metal. Le influenze, però, si sviluppano come se si trattasse di due cerchi che si intersecano e che rappresentano, appunto, il death e il black. Vi è una predominanza del secondo, che spinge verso atmosfere plumbee e sulfuree di chiarissimo stampo black atmosferico, non disdegnando, specialmente nel primo brano “Utopian Warfare” (come pure qui e là nelle altre canzoni, vedi “Empire”), di servirsi pure di una più che evidente vena minimalista e Doom.
Le tracce, pur rappresentando e basandosi su di un ampio spettro sonoro, non risultano, all’ascolto, disarticolate, scollegate o spiazzanti. Sperimentare va certamente bene ed è apprezzabile, se comunque si riesce a tener traccia di un disegno complessivo. Proprio in questo sta la peculiarità di quest’opera, la cui struttura si mantiene su canoni estremamente omogenei che, come un filo conduttore, fanno sì che si possa godere dei 39 minuti circa complessivi, senza troppi intoppi.
Questo, ovviamente, è un aspetto che sono sicuro sia maturato in sede di songwriting e ne sottolinea, ancora di più, il grande valore intrinseco. Il merito è certamente dovuto all’esperienza e alla grande ispirazione di questi musicisti che, con “Unortheta”, hanno ben saputo sintetizzare tutti gli elementi che ho elencato. Tutti e sette gli episodi che compongo quest’album appaiono di assoluta e oscura caratura, senza cali di sorta e senza che, per nemmeno un momento, si possa pensare a una qualche sorta di riempitivo.

Proprio l’opening, la già citata “Utopian Warfare” potrebbe considerarsi come il brano maggiormente rappresentativo di tutto il lotto. Un gioiello nero come la pece che da un miasma di blast beats e da una tormenta di chitarre vorticose di matrice black, viene arricchita da un growl gutturale e profondamente cavernoso. Complessivamente, l’amalgama tra le parti fa sì che per sette minuti si venga rapiti completamente dall’atmosfera creata, anche grazie ad un mood, intimamente malsano, che sembra divenire quasi palpabile verso la fine della canzone.
Proprio l’atmosfera è la chiave di lettura per tutto questo lavoro.
Ovunque, e per tutti i brani, ci si sente intrappolati sotto una coltre scurissima di oppressione sonora che non ha mai cedimenti. Una pressione che non si allenta nemmeno quando il ritmo, dal parossismo di velocità stratosferiche di stampo black, rallenta in passaggi cadenzati tipici del funeral doom. Molto spesso, poi, questi momenti sfociano in un ambient manipolato in maniera tale da esser usato come trampolino di lancio per il brano successivo. È il caso di “Spewing Gloom” e “The Syringe Dance”. Quest’ultima, forse, la più black del lotto anche se, paradossalmente, una delle poche che fa a meno del ritmo suicida, della violenza sonora e delle accelerazioni che tolgono il fiato.

I contrasti stilistici che si possono ascoltare, poi, in “World” o nella titletrack “Unortheta”, mi chiedo se siano frutto del paese di provenienza degli Zhrine. La remota Islanda: terra che, concettualmente, si presta bene all’ispirare certi passaggi “lunari” e così permeati di desolata disperazione. Un’isola quasi più vicina al continente americano e al Polo Nord che all’Europa, con un ventre di lava e di gas che erutta in superficie per mezzo di vulcani e geyser. Posizionata ad una latitudine così alta, che la rende una distesa di ghiaccio dalla coltre impenetrabile per molti mesi l’anno, e dove, infine, la luce del giorno, per metà dell’anno, è quasi sempre sopraffatta dall’oscurità e solcata dalle scie delle aurore boreali.
Proprio in un crepaccio profondissimo che separa i due monoliti sonori, siderali e nerissimi, rappresentati dalle influenze artistiche dei nostri, dissonanze strumentali e lugubri accordi funerei serpeggiano in maniera ferale. Dove altre band, dalla minore ispirazione e dal minor talento, avrebbero usato infarcimenti tastieristici per creare un clima artificiale di malessere, gli Zhrine sferzano l’ascoltatore con un tappeto sonoro graniticamente annichilente, che in un soffio spazza via qualsiasi velleità di speranza in egual misura. Il gruppo riesce nel suo scopo: sia che si tratti dell’aspetto esasperatamente violento e feroce della musica, che non quello, di contro, invasivamente cadenzato e lugubre, come in “The Earth Inhaled”, dove addirittura un pauroso equilibrio, tra le due sponde del crepaccio, viene a trovarsi.

“Unortheta”, in definitiva, è puro permafrost sonoro da non perdere assolutamente.
Non c’è nient’altro da aggiungere.

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