Recensione: We’re All Gonna Die

Di Alberto Franco - 5 Dicembre 2013 - 21:11
We’re All Gonna Die
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2013
Nazione:
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73

A molti il monicker Generation Kill non dirà molto. Tuttavia, ai più attenti non sfuggirà che sotto questo nome si nasconde il progetto di Rob Dukes, attuale cantante degli storici Exodus. Inoltre, è d’obbligo citare fra i componenti della band il bassista Rob Moschetti, precedentemente in forza, anche se solo per un album, negli storici Crossover/Thrasher M.O.D., nati dalle ceneri dei S.O.D. Attivo dal 2008, il quintetto ha già all’attivo un Full-Length, “Red, White and Blood”, pubblicato nel 2011 dalla Season of Mist e passato abbastanza in sordina. Il 2013 è l’anno che segna la svolta definitiva per la band, che firma con la major Nuclear Blast. Arriva un tour europeo estivo a fianco degli storici Heathen, passato anche in Italia., e il 15 Novembre vede finalmente la luce l’atteso seguito: questo “We’re All Gonna Die” oggetto della recensione.

È bene fare subito una premessa: chi si aspetta un album che ricalca lo stile dei più recenti Exodus, come possono essere gli Hatriot di Steve Zetro Souza, si sbaglia. Certo, le influenze thrash sono presenti, ma sorprendentemente molto limitate, e diversi brani si distaccano totalmente dal genere. Inoltre, la prestazione fornita da Dukes è molto eclettica, tanto che spesso si ha notevole difficoltà ad accostare questo cantante a quello a cui eravamo abituati da album come “Shovel Headed Kill Machine”.

Detto ciò, è bene iniziare a passare in rassegna i brani contenuti nell’album, che presentano caratteristiche decisamente diverse l’uno dall’altro. Apre le danze “Born to Serve”, mid-tempo in cui c’è poco da segnalare, fatta eccezione per un discreto assolo di Jason Velez. “Prophets of War” è un brano diviso in due parti, la prima sostenuta da un arpeggio di chitarra con Dukes intento a fare il verso al Phil Anselmo più lento e malinconico di album come “NOLA” dei Down, mentre nella seconda parte abbiamo la prima accelerazione veramente thrash, dove le urla di Dukes si alternano ai più classici dei cori ‘Anthrax-style’. Il riffing di “Death Comes Calling” è decisamente ‘Doom-oriented’, e sebbene il brano scorra via senza problemi, viene da chiedersi quale sia l’utilità di una parentesi simile in un album che per il resto non ha nulla da spartire con il genere in questione. Da “Friendly Fire” si entra nella parte calda dell’album, i toni diventano più veloci e il sound della band comincia a farsi più marcato. Rob Dukes ritorna su coordinate vocali vicine a quelle che tutti conoscono, mentre il resto della band ci offre un brano divertente, con riff veloci e taglienti, begli assoli e cori inseriti al punto giusto. Pur essendo il brano dove il quintetto New-Yorkese osa di meno, “Friendly Fire” risulta decisamente essere messa al posto giusto nel momento giusto. “Carny Love” si distingue per un Dukes che ipnotizza l’ascoltatore, mentre “Vegas” è un altro brano veloce e divertente, pur avendo una seconda parte più riflessiva. Stesso discorso per “There is No Hope”, prima parte thrash in pieno Exodus-style, seguita da un arpeggio dove Dukes torna ad ipnotizzare l’ascoltatore, tra i migliori brani del lotto. Chiude la scaletta la titletrack, altra sfuriata thrash che non aggiunge nulla a quanto già detto, alla quale va dato se non altro il merito di regalare una scarica di adrenalina finale.

Terminato l’ascolto, si è colti da sensazioni discordanti: da un lato la qualità dei brani è più che buona, e seppur prolisso in certi punti, l’album non annoia. Tuttavia è necessario dire che non è sufficiente la capacità di scrivere buoni arrangiamenti e far ricorso a una gran quantità di influenze per ottenere un suono personale. L’intenzione di non scadere nell’emulazione è lodevole, e va dato il merito alla band di avere le carte in regola per sfondare, ma in futuro sarà necessario trovare un giusto punto d’incontro tra le varie influenze, al fine di ottenere un album meno dispersivo, che perda in varietà ma guadagni in incisività. Tirando le somme, “We’re All Gonna Die” è un disco che potrà piacere a tutti, ma ancora troppo acerbo in alcuni punti. Rimango fiducioso e aspetto il terzo album per il finale salto di qualità che è lecito aspettarsi da musicisti rodati come i Generation Kill.

Alberto “80’s Thrasher” Franco

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