Recensione: Who We Are

Di Fabio Vellata - 17 Giugno 2016 - 19:33
Who We Are
Band: Vega
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Parafrasando un noto spot pubblicitario, potremmo comodamente coniare uno slogan ad hoc per l’occasione:

Non una semplice promessa, ma una solida realtà.

2010 – Esce “Kiss Of Life”. Debut album edito da Frontiers, che pone sulla scena una nuova band ispirata chiaramente all’epoca d’oro del rock ottantiano. Un mix di influenze a cavallo tra Bon Jovi e Def Leppard alla base di un esordio di grande livello, classificabile tra gli album migliori dell’annata.

2013 – Passati tre anni, è la volta di “What the Hell”. Esattamente come per il predecessore, un disco condito di grandi anthem, brani efficaci carichi di melodie immediate che riesce nel difficile intento di replicare la bontà del primo cd.

2015 “Stereo Messiah”: rientro in Frontiers records dopo una breve affiliazione con Spinefarm, per un full length ancora una volta gradevole ma, questa volta, “conservativo”. Ovvero di buon livello, ma non capace di bissare quanto realizzato in precedenza. Buone canzoni, produzione pessima, con la sensazione di non riuscire ad andare oltre un profilo di maniera, incapace  d’incidere in modo definitivo.

2016 – Siamo ai giorni nostri ed è la volta di “Who We Are”, nuovo album, ancora per Frontiers, di Nick Workman e dei suoi Vega.
È passato qualche anno, la maturazione ha compiuto i propri passi ed è giunto il momento di capire se, le affermazioni proposte all’epoca del debutto, hanno davvero avuto riscontro.
Una band destinata a durare a lungo, ispirata al passato glorioso del melodic rock ma con la voglia di crescere e fondare un proprio stile…

Diciamolo onestamente. Ponendo l’orecchio ad un disco prodotto dal buon Workman, di brutte sorprese non ne abbiamo mai avute.
Sin dai tempi dei Kick (se qualcuno ancora li ricorda), la certezza di ascoltare qualcosa di comunque interessante è sempre stata costante. Ora però, con i Vega, un amante di un genere multiforme e mai del tutto facilmente classificabile come il rock dedito alla melodia, può letteralmente andare “a nozze”.
A quanto pare, infatti, il cerchio si è compiuto sul serio e quello che oggi abbiamo per le mani è un quarto full che si attesta ai limiti dell’eccellenza. Un degno successore dei primi due capitoli, con l’addizionale di potersi definire “moderno” e “radio friendly”, senza però perdere un oncia in termini di espressività artistica e carattere.

Canzoni immediate, ritornelli che non stancano mai (e soprattutto, non vengono ripetuti stucchevolmente all’infinito, come troppo spesso accade in prodotti similari), cori memorabili ed un livello di songwriting che non potremmo definire in altro modo che “superiore”. Merito dei fratelli Martin, garanzia di sicurezza per Frontiers Records, questa volta quasi miracolosi nel confezionare una serie di canzoni che riesce nell’impresa di rendersi longeva e duratura, capace, dopo più di trenta ascolti (nessuna esagerazione!) di presentarsi ancora fresca e coinvolgente come il primo passaggio.
Sornionamente “Leppardiani”, i Vega catturano l’attenzione con brani deliziosi quali “We Got It All”, “White Flag” e “Generation Now” (ecco una strofa che più Def Leppard non si può!), per poi esplodere di assoluta grandezza in “Every Little Monster”, “Saving Grace” ed “Hurt So bad”, riassunto di una statura stellare e citazioni “a braccio” di una scaletta incredibile nell’omogenea altissima qualità.
Un successo che permette alla band di Birmingham di presentarsi, ora, come uno dei nuovi autentici “fenomeni” Hard rock / Aor partoriti dalla terra d’Albione negli ultimi quindici/venti anni.

Non un pezzo sottotono: anche un lentaccio come “Nothing is Forever” forse il momento dal taglio più commerciale e radio-oriented (che parecchio ci ricorda una singolare mescolanza tra i Queen e Robbie Williams), riesce a catturare l’attenzione, mettendo in luce un eccellente gusto per la melodia. Parole ripetibili pure per “For Our Sins” (questa volta, un retrogusto alla U2, periodo “The Joshua Tree”, sembra approssimarsi di quando in quando), altro esempio di perfetta miscela tra il rock ottantiano ed afflati modernisti che occhieggiano al grande pubblico.
Uno stile che si rende personale, che talora ricorda – come detto più volte – i Def Leppard, senza però mai scendere nella citazione, che elabora tutto quanto messo in giro da band più o meno famose, più o meno commerciali (anche radiofoniche, se volete), per poi sputare in faccia un disco perfetto, inattaccabile, preciso, dai suoni celestiali.
Di più: longevo, esaltante, senza punti deboli qualunque sia il punto di vista da cui lo si voglia osservare.

Il limite è presto definito: essere amanti del genere.
Unico possibile motivo per relegare un album come “Who We Are” tra le uscite poco interessanti è, infatti, quello di essere legati ad altri suoni, ad altre immagini, a sensazioni diverse e non comprensibili al proprio modo d’intendere la musica.
Per gli altri, per tutti coloro che da sempre fanno intimamente propria la benedizione del rock melodico in tutte le sue forme e sfaccettature, rendendolo colonna sonora della propria esistenza, ecco servito il probabilissimo disco dell’anno.

O forse, anche qualcosa di più…

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