Recensione: Berdreyminn

Di Stefano Burini - 22 Giugno 2017 - 10:30
Berdreyminn
Band: Sólstafir
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Sono passati quasi due anni ma il ricordo dell’incredibile show con il quale i Sólstafir, dal nulla, riuscirono a zittire l’intero Brutal Assault 2015 a suon di assoli torrenziali, azzeccate melodie e impareggiabili affreschi atmosferici rimane quanto mai vivido nella mia mente. Spero perdonerete – per questa volta – il tono estremamente personale e colloquiale, ma i Sólstafir non sono una di quelle band di cui (mi) è possibile parlare con freddezza e distacco, tale e tanto il sentimento contenuto nella loro musica

I tempi di “Í Blóði og anda” e “Masterpiece of Bitterness” sono indubbiamente lontani e sono (siete) certamente in molti là fuori a non aver digerito il cambio di sonorità perpetrato negli anni dalla band nordica; tuttavia ascoltando l’uno di fila all’altro i quattro album pubblicati dai Sólstafir dal 2009 ad oggi è davvero difficile non ravvisare un filo conduttore chiaro e coerente nell’evoluzione del loro sound.

“Berdreyminn” è di certo l’album più morbido mai prodotto finora dal quartetto capitanato da Aðalbjörn “Addi” Tryggvason ma non per questo deve essere approcciato per forza con sospetto (e purché non vi aspettiate un improbabile ritorno alle origini vi basteranno pochi ascolti per rendervene conto) .

Le otto canzoni che ne compongono la tracklist sono il naturale step evolutivo di quanto ascoltato sullo splendido “Ótta”. Largo spazio, dunque, a melodie sognanti e atmosfere dilatate a metà strada tra post metal, shoegaze e tentazioni folk (Silfur Refur) senza tuttavia dimenticare la lezione delle cavalcate desertiche proposte ai tempi del seminale ”Köld” (“Ísafold”) nonché un certo qual gusto per armonie chitarristiche di derivazione prettamente classic rock.

Tryggvason si diletta per buona parte della durata di “Berdreyminn” con un cantato in voce pulita profondo ed espressivo (“Nárós”), una sorta di crooning che benissimo s’intona con il mood dell’album e riuscendo nel contempo a far risaltare alla grandissima le rare – ma significative – impennate d’intensità con le quali il barbuto cowboy nordico sottolinea da par suo i momenti di maggior pathos.

I minuti scorrono ma la qualità dei pezzi non mostra segni di cedimento. La rarefatta “Hula” fa infatti sognare con le sue vocals sommesse e le atmosfere cupe eppur sublimi, mentre la fiera “Hvít Sæng” dopo un incipit dalle atmosfere al limite del western si trasforma in una cavalcata più che mai battagliera, benissimo sorretta dall’energico martellare di Hallgrímur Jón Hallgrímsson dietro le pelli e dal guitar work dal sapore epico ad opera di Tryggvason e Sæþór Maríus “Gringo/Pjúddi” Sæþórsson.

E che dire di “Dýrafjörður”, con le sue evidenti influenze di matrice Pink Floyd-iana e della favolosa “Ambátt”, con la quale i gli islandesi dimostrano – come se ce ne fosse ancora bisogno – di saper rielaborare con grandissima personalità gli spunti più disparati, questa volta al limite del pop elettronico? Ascoltare per credere.

In chiusura troviamo infine la desertica “Bláfjall”, un’altra notevole implementazione di vecchio e nuovo, nella quale i Sólstafir riescono a far convivere senza forzature le sonorità di “78 Days In Desert” con lo spirito dei giorni nostri.

Non siamo ai livelli di ”Köld” né “Ótta” e forse nemmeno di “Svartir Sandar” (i quali, per inciso, hanno impresso un bel segno nel panorama metal degli ultimi dieci anni, configurandosi dunque come termini di paragone piuttosto ardui da eguagliare, NdR) ma “Berdreyminn”, grazie ad un songwriting ispirato, ad una forte identità sonora e ad una proposta musicale peculiare e ancora in cammino d’evoluzione, non teme paragoni.

Bentornati Sólstafir!

Stefano Burini

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