Recensione: Hidden City

Di Stefano Burini - 24 Aprile 2016 - 10:43
Hidden City
Band: The Cult
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2016
Nazione:
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82

Di tutte le band “storiche” dell’hard ‘n’ heavy, ristretto novero del quale fanno parte di diritto tutte quelle realtà che per meriti ed anzianità hanno contribuito a tracciare la via di questo genere musicale, i The Cult sono certamente tra i più particolari e anche per questo tra i maggiormente sottovalutati.

I detrattori non hanno mai visto di buon occhio i repentini cambi d’abito tra un album e l’altro, sempre pronti a puntare l’indice contro quello che in più d’un’occasione ha in effetti dato l’impressione di essere sostanziale opportunismo. Eppure, se a trentatré anni dall’uscita del già bellissimo “Dreamtime” siamo ancora qui a tessere le lodi di questo manipolo di rocker inglesi e della loro immutata capacità di scrivere musica tutt’altro che banale, un motivo dovrà pur esserci.

Billy Duffy e Ian Astbury – corpo e anima dei The Cult – hanno sempre avuto dalla loro un grande eclettismo, probabilmente figlio di un background tanto radicato nei 70’s dell’hard britannico quanto sensibile al richiamo delle sirene del post punk e della new wave. Eclettismo che, unitamente a ragguardevoli dosi di talento, ha probabilmente permesso loro di cavalcare i maggiori trend sonori di decennio in decennio senza mai lasciare da parte quell’inconfondibile marchio sonoro che da sempre li contraddistingue.

Il nuovissimo “Hidden City”, così come il suo illustre predecessore, rispetto agli album del passato (anche recente, basti sentire le contaminazioni industrial su “Born Into This”) più che continuare l’esplorazione sembra in qualche modo voler “fare il punto della situazione”. Le nuove canzoni, ancor più di quelle contenute in “Choice Of Weapon”, paiono in realtà voler ripercorrere praticamente tutto quanto fatto finora dalla band britannica, recuperando alcuni stilemi riconducibili ai primi anni di vita della band, per poi allargare il discorso fino ai giorni nostri e incorporare sfumature sonore inedite. 

L’opener “Dark Energy” suona così incredibilmente ed inequivocabilmente Cult che anche dopo ripetuti ascolti si stenta a credere possa essere uscita dalla penna (e dal cuore) di musicisti sulla scena da più di trent’anni risultando stilisticamente ineccepibile e nel contempo carica e trascinante come si addice ad una vera rock song. E che dire delle successive “No Love Lost” – dominata in lungo e in largo dal drumming del sempre ottimo John Tempesta – e “Dance The Night”? La voce di Astbury, lo sappiamo sin dall’ormai lontano 2007, è quella che è ma ciò non impedisce allo Sciamano di continuare ad offrirci performance di grandissima classe dal punto di vista dell’interpretazione e del sentimento, tuttavia a stupire una volta in più è l’indissolubile amalgama con l’ispiratissimo guitar work intessuto dall’eterno Billy Duffy, riffmaker instancabile e mai a corto d’idee.

Con la successiva “In Blood” i The Cult trovano anche il modo di inventarsi una splendida ballata dai toni blues, cupa e notturna nella quale Astbury pare rifarsi al Bowie – ahilui – più crepuscolare e, pur che si tratti con tutta probabilità del miglior brano in scaletta, “Hidden City” non finisce certo qui. “Birds In Paradise” è dolente e poetica mentre nella successiva “Hinterland” riecheggiano tanto gli anni della new wave quanto il piglio modernista di “Born Into This” in un ideale ibrido trainato da una particolarissima melodia vocale, forse difficile da assimilare a primo ascolto eppur in grado di fissarsi in testa in maniera soprendentemente solida. Gli anni ’70 vengono poi chiamati in causa sulla zeppeliniana “G O A T”, praticamente una sorta di godibilissima outtake da quel grande saggio di hard rock verace e furibondo che rispondeva al nome di “Electric”, giunta soltanto oggi alla pubblicazione per qualche strano scherzo del destino. 

Anni ’70, ’80, new wave, hard rock e persino blues. Il piatto appare già quanto mai ricco, eppure i The Cult non sembrano per nulla intenzionati a mollare presa. La particolarissima “Deeply Ordered Chaos” è infatti oscura, modernamente goticheggiante e magniloquente: il pezzo che non ti aspetti da due vecchie volpi come Ian Astbury e Billy Duffy e che grazie alle loro innate capacità finisce per colpire di nuovo nel segno. Tralasciando la più debole “Avalanche Of Light”, non brutta ma onestamente un po’ sottotono rispetto ai pezzi da novanta proposti finora, il finale è poi lasciato ad un terzetto di tutto rispetto nella quale la delicata “Lillies” e l’energica “Heathens” – animata da un Billy Duffy più che mai indiavolato alla sua sei corde – preparano il terreno per la favolosa “Sound And Fury”, un’altra ballad intensa e di grandissimo pregio con Astbury del tutto a proprio agio negli inusuali panni di crooner.

Trent’anni (di carriera) e non sentirli. Non è cosa da tutti ed è certamente motivo di vanto per una band che, ormai da tempo lontana dal clamore della ribalta, ha dimostrato di saper continuare il proprio cammino di evoluzione stilistica senza paura e senza cedere in alcun modo alle lusinghe manieriste e ai fantasmi del glorioso passato. The Cult: un nome, una garanzia di qualità e di coerenza.

Stefano Burini

 

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