Recensione: Masters Of Evil

Di Stefano Burini - 2 Settembre 2016 - 0:01
Masters Of Evil
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Quelli di Michael Denner e Frank Shermann sono nomi magari meno celebrati rispetto a quelli di altre coppie d’asce che hanno fatto la storia dell’Heavy Metal negli anni ’80 ma non per questo meno importanti o di valore inferiore, come ben testimoniano i dischi incisi all’epoca della militanza nei Mercyful Fate.

A distanza di qualche anno dall’ultima – effimera – reunion con il Re Diamante e dopo svariati progetti e collaborazioni con gruppi e artisti della scena locale, i due axeman danesi hanno finalmente deciso di mettersi in proprio, debuttando nel 2015 con un apprezzato EP dal titolo “Satan’s Tomb” .

Superato il primo test, l’album“Masters Of Evil” costituisce dunque il miglior banco di prova per saggiare la resistenza dei Denner / Shermann sulla lunga distanza e va detto che per larghi tratti le canzoni proposte vanno ben oltre le – pur elevate – aspettative, consegnandoci tra le mani un efficacissimo compendio di classic heavy metal oscuro, tagliente e impregnato di zolfo.

Le doti chitarristiche del duo appaiono intatte rispetto all’epoca d’ora, tali il vigore e l’ispirazione perfettamente udibili tra i riff, i fraseggi e gli assoli di pezzi come “Son Of Satan”, “Angels Blood e “Master Of Evil”; tuttavia a risaltare in maniera addirittura inattesa è la voce ultrasonica di Sean Peck, una sorta di ideale ibrido in grado di coniugare la maligna teatralità di King Diamond con la furia tipicamente heavy metal di un altro mostro del calibro di Rob Halford.

A fianco del già notevole terzetto precedentemente citato trovano poi posto i due pezzi probabilmente meglio riusciti in scaletta, ossia “The Wolf Feeds At Night” e “Pentagram And The Cross” mentre va detto che il finale costituito da “Servants Of Dagon”, “Escape From Hell” e “The Baroness” (comunque la migliore delle tre) vede un leggero calo qualitativo rispetto all’elevata media sinora mantenuta.

“Master Of Evil” risulta dunque un album ben composto e ben riuscito, complessivamente in grado di far breccia nel cuore degli appassionati del tipico sound delle band in cui ha militato il Re Diamante evitando nel contempo di incappare nel madornale errore di scimmiottarne gli stilemi senza conservarne la sostanza. 

Stefano Burini

 

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