Recensione: Periphery

Di Stefano Burini - 7 Luglio 2012 - 0:00
Periphery
Band: Periphery
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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80

“Thank you for purchasing Periphery’s self titled debut long play record, Periphery! On this album, you’ll hear heavy metal; a genre of music from the future! Be dazzled by distortion, be bombarded by bass beats, and Djitter-bug to Djent! We’re sure you’ll enjoy such finger-popping tunes as Light, Insomnia, and my own personal favorite, Ragtime Dandies! These songs and more are played by our talented troop of traveling troubadours, featuring the likes of Misha, ‘The Electric Light Bulb’, Mansoor, who was voted the twenty-third most influential person in Brown Magazine and can be found on the cover of this month’s Mocha Emporium! And look, up in the sky, it’s a bird, it’s a plane, it’s Trent Reznor, no, it’s Jake Bowen and his seven strings of wonder! Rounding off the trio of strings-men is Alex Bois, the man with the arms of steel and the arse of a skunk! On drums is Matt Halpern, the only man who can break three cymbals with one swing of the stick! Our lead singer will be Spencer Sotelo, who’s voice goes up like an angel… and down like a wounded ox…Last, but not least, is Tom Murphy; providing the rumble from down under and is the only member of Periphery decent enough for the institution of marriage. Experience heavy metal at it’s finest! Periphery, love that shit!”

Con questa spiritosa presentazione in stile giornale radio anni ’40 la band originaria del Maryland decide di presentarsi al mondo, tuttavia, per introdurre il “fenomeno” Periphery, il discorso deve per forza partire da molto lontano, da quel nuovo sound che Pantera e, soprattutto, Machine Head, con le loro venature più fredde e robotiche, portarono allo scoperto tra l’inizio e la metà degli anni ’90 e che viene comunemente identificato con il nome di post-thrash. Poi arrivarono i Meshuggah che, da “Destroy Erase Improve” in poi, si spinsero ulteriormente oltre creando un mostro cibernetico futurista e inumano che negli anni ha fatto numerosi proseliti, come i transalpini Gojira. Forse, tuttavia, solo alla fine degli anni 2000 ci si è resi conto di come questo suono sia a poco a poco diventato un vero e proprio (sotto)genere con delle caratteristiche proprie e via via sempre più lontane da quella che era la matrice di partenza.

Tra le nuove leve, tra gli alfieri maggiormente determinati a portare avanti l’esplorazione di questo nuovo sound e ad ampliarne ulteriormente lo spettro di certo non è possibile non annoverare i Periphery. Il gruppo statunitense nasce nel 2005 come progetto solista del talentuoso chitarrista Misha Mansoor e solo in seguito a innumerevoli cambi di line up si è giunti alla formazione che ha registrato “Periphery”.

A seguito di un intensa attività concertistica di supporto ad artisti più affermati come Fear Factory, Devildriver, The Dillinger Escape Plan e Between The Buried And Me la loro proposta si affina incorporando elementi progressive e mathcore e sviluppando un coté melodico decisamente personale ed innovativo. Il 2010 è l’anno del debutto discografico sotto l’egida della Sumerian Records (ma la distribuzione nel resto del mondo sarà gestita da Roadrunner) e, per una volta, è quasi con stupore che si può affermare che una band con del talento, dedita a sonorità non esattamente “di massa” e senza l’appoggio di look stravaganti o dichiarazioni provocatorie sia riuscita a farsi strada grazie alla forza della propria musica.

E’ sufficiente andare a cercare su Youtube per trovare dei filmati a dir poco caserecci Misha, intento a suonare la chitarra nella sua disordinatissima cameretta da teenager o poco più, con la madre che fa capolino sullo sfondo presa dalle faccende domestiche. Meraviglioso. Tra queste clip è, inoltre, possibile trovare anche quella ormai giunta agli onori della cronaca, nella quale è proprio il giovane guitar player a parlare per la prima volta di questo nuovo sottogenere e a battezzarlo con il nome onomatopeico di djent-metal.

Caratteristiche principali del djent metal sono l’utilizzo di chitarra elettriche anche a sette o otto corde, ultradistorte e accordate verso il basso, molto spesso suonate utilizzando la tecnica del palm-muting. A questi tratti somatici di evidente ispirazione meshugghiana, a più riprese citati come i veri iniziatori del movimento, si affiancano l’ampio uso di poliritmie e di un vocalismo talora estremamente aggressivo e in altri frangenti decisamente etereo, lontano ad ogni modo, dal troppo spesso abusato schema strofa cattiva/ritornello melodico tipico del metalcore. Le evoluzioni vocali di Spencer Sotelo, l’ultimo entrato a far parte del gruppo e probabilmente il vero e proprio tassello mancante nel mosaico del mastermind di origini arabe, sono un qualcosa di veramente eccezionale. Se il suo growl non è dei più espressivi mai uditi, è il contrasto con un cantato in pulito celestiale e straniante a creare un connubio veramente efficace e strabiliante, al punto che si stenta a credere che sia sempre la stessa persona ad aggredirci con tale veemenza e pochi istanti dopo a lasciarsi andare a inattese fughe melodiche di grande pregio.

“Insomnia” è già un pezzo da novanta, i suoni sono compressissimi, le ritmiche davvero variegate e il growl bestiale ma, come anticipato, sono le clean vocals di Sotelo, pur ancora acerbe e a tratti anche non del tutto aggraziate, ad emozionare per davvero, assecondate da una band compatta in grado di seguire il cambio d’umore del pezzo in maniera splendidamente efficace, come dimostrano i due stacchi melodici quasi stralunati intorno al minuto 1:50 e al minuto 3:15

La partenza di “The Walk” è decisamente più violenta e industrialeggiante; il formidabile riffing martella con veemenza mentre Spencer si sgola senza risparmiarsi; fin dalle prime battute si nota la devozione di Misha per John Petrucci e in generale per i Dream Theater e il progressive metal, ulteriore influenza che si amalgama in maniera soprendente con un tessuto sonoro veramente pesante ed estremo. L’assolo orientaleggiante intorno ai tre minuti è un ulteriore dimostrazione di grande estro e fantasia.

Il djent, così come lo descrive Misha a parole e mimando il suono iperdistorsto delle chitarre, è perfettamente udibile in “Letter Experiment”, altra mazzata di grande intensità in cui tornano a farsi sentire le emozionanti aperture melodiche di Sotelo, con un crescendo veramente da manuale, a metà tra prog, ambient e metal meshugghiano, soffocato da un furioso ritorno strumentale e poi riportato alla luce del giorno con la fatica di un animale intrappolato in una caverna che riguadagna a poco a poco la libertà scavando nel terreno.

L’attacco di “Jetpack Was Yes!” è un piccolo gioiello di melodia e positività dentro a un album caratterizzato da toni complessivamente più aggressivi; le chitarre di Misha, Alex BoisJack Bowen non mancano di far sentire la loro brama di spaccare il mondo ma il vero protagonista di questa traccia è Spencer, per la prima volta (quasi) interamente in pulito e autore di una linea vocale tutta storta, con le corde che raschiano tutto quello che c’è e un paio di acuti certamente lontani dalla perfezione tecnica ma nel contempo dannatamente da brividi.

“Light” vola sulle stesse frequenze degli episodi precedenti ma senza poter vantare alti così sfolgoranti, finendo per fare la figura della “copia meno riuscita”; le derive vagamente elettro/ambient nel finale, più marcate che in altri frangenti mostrano anche una certa affinità con alcuni capitoli della discografia solista di Devin Townsend, altro artista che di certo i Periphery conoscono benissimo.

Bastano tuttavia i pochi accordi che introducono la spettacolare “All New Materials” per capire che siamo di nuovo sulla retta via. La batteria più che mai prog-oriented di Matt Halpern dà lezioni di stile e virtuosismo senza tuttavia eccedere nel percussionismo “da circo”, le chitarre passano con sorprendente abilità da assalti all’arma bianca ad attimi di quiete quasi estatica come nel bellissimo finale di traccia e Sotelo ci regala una delle migliori performance di tutto l’album.

Con “Buttersnips” torniamo su lidi più estremi, addentrandoci addirittura nei “pericolosi” meandri del mathcore e spendere parole sull’ennesima prestazione maiuscola degli strumentisti e sulla grande capacità di Spencer di infilarsi tra le fenditure di una parete di suono così robusta e frastagliata, talvolta imbracciando lo spadino e talvolta la scimitarra, sarebbe di certo ridondante. 

Il riff iniziale di “Icarus Lives” è addirittura rockeggiante ma presto sfumato nella consueta violenza e l’assolo di chitarra è un piccolo capolavoro di progressive, una scalata verso il cielo assolutamente da brividi, a metà tra Steve Vai e il John Petrucci di almeno quindici anni fa, mentre “Totla Mad” ha un giro che potrebbe incantare un serpente a ritmo di djent metal, ma l’impasto violenza industrialoide/melodia eterea risulta in questo frangente meno brillante che in altri.

Di nuovo chitarre che pestano duro ed efficacemente in “Ow My Feelings” ma anche qui  sorpattutto nella successiva “Zyglrox”, probabilmente la meno brillante dell’intero album, l’impressione è che i Periphery tendano a ripetersi un po’, mostrando la solita grande perizia tecnica ma non riuscendo più a stupire come nelle prime tracce e addirittura finendo per annoiare.

Risaliamo in orbita con il gran finale riservato alla tentacolare “Racecar”, quindici minuti di prog/math/metal/post/core di grande fattura in cui le linee vocali tornano a farsi vincenti e in cui la furia strumentale degli ultimi due-tre pezzi, pur non mancando momenti decisamente groovy, sfuma un po’, rendendo più accessibile e intelligibile una canzone di certo impegnativa ma in grado di dare grandi soddisfazioni ai fan del metal più tecnico e ricercato.

“Periphery” non è un disco perfetto e la band che lo ha inciso non ha ancora raggiunto lo “stato dell’arte”: la produzione è rivedibile, alcuni brani si perdono talvolta in qualche lambiccamento di troppo e se la voce di Spencer Sotelo ha l’innata capacità di emozionare per davvero, il suo cantato è ancora lontano dalla perfezione tecnica, un po’ alla maniera del primo Michael Kiske, con il quale denuncia peraltro una somiglianza davvero marcata in alcuni passaggi, nonostante il suo spettro canoro sia decisamente maggiore. 

Ci sono dunque ampi margini di miglioramento e, d’altro canto, stiamo pur sempre parlando del debutto di un gruppo dall’età media decisamente bassa e con il futuro dalla sua, eppure siamo qui lo stesso a parlare di un grande album, di difficile ascolto e di difficile assimilazione: un diamante grezzo, parte del cui fascino risiede anche nella sua imperfezione, nella smania di mettere nero su bianco mille e più idee, in maniera a volte persino non troppo coesa. Un album di quelli che hanno riportato in auge il metal sperimentale e che sta trascinando con sé sull’onda dell’entusiasmo anche realtà più anziane che negli ultimi dieci, quindici anni hanno dato davvero molto all’heavy metal. Fosse anche solo per questo, i Periphery meriterebbero la vostra attenzione, in più fanno anche della musica decisamente interessante; date loro una possibilità, potrebbero rivelarsi una gradita sorpresa.

Stefano Burini

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Tracklist

01. Insomnia   04:49

02. The Walk   05:06

03. Letter Experiment   06:51

04. Jetpack Was Yes!   03:57

05. Light   05:50

06. All New Materials   05:20

07. Buttersnips   05:54

08. Icarus Lives!   04:24

09. Totla Mad   04:00 (Ospite speciale: Adam Getgood (Red Seas Fire) alla chitarra)

10. Ow My Feelings   06:06

11. Zyglrox   05:06

12. Racecar   15:23 (Ospiti speciali: Jeff Loomis (Nevermore) e Elliot Coleman (TesseracT) alle chitarre e Casey Sobel (ex Periphery) alla voce)

 

Line Up

Spencer Sotelo:   Voce

Misha ‘Bulb’ Mansoor:   Chitarre, programming

Alex Bois:   Chitarre, backing vocals

Jack Bowen:   Chitarre, programming

Tom Murphy:   Basso, backing vocals

Matt Halpern:    Batteria

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