Recensione: Shrine

“Il passato non è morto. In realtà, non è nemmeno passato“, questa frase, attribuita a William Faulkner, esprime in modo profondo come la storia continui a vivere nel presente, influenzando ciò che siamo e ciò che accade; questo aforisma trova piena realizzazione nell’album ‘Shrine’ degli Onioroshi in quanto, con l’ultimo lavoro, confermano la loro origine nel prog‑psych, con rievocazioni a band come Pink Floyd e King Crimson, nonostante una certa dose di innesti sperimentali e d’avanguardia. Inoltre la complessità del disco è perfettamente coerente con l’idea della band.
I cultori del rock progressivo, psichedelico e sperimentale potranno apprezzare questo lavoro, così come gli appassionati di lunghe suite espansive, ricche di cambi di tempo e scenari sonori evocativi; appare curioso come il significato, letterario e/o metaforico, del titolo dell’album richiami un luogo profondamente rispettato o venerato, anche in senso laico o simbolico, proprio come le lunghe composizioni che compongono il disco.
‘Shrine’, sempre in continuità con il discorso del tempo, presuppone un ascolto impegnativo, attento, senza fretta; è un album che richiede disponibilità a lasciarsi trasportare dai lunghi minuti delle composizioni. Senza voler effettuare confronti, ‘Shrine’ rappresenta una grande evoluzione rispetto al debutt album ‘Beyond These Mountains’.
Il Progetto nasce nel 2014 e vede in formazione Manuel Fabbri al basso, Enrico Piraccini alla batteria (entrambi i musicisti anche dietro il microfono) e Matteo Sama alla chitarra. Il sound è abbastanza personale, spazia dal prog dei primi Riverside fino a toccare alcune corde oldfieldiane (quelle di ‘Ommadawn’), contiene un bel po’ di “sporcizia” sonora tipica delle produzioni contemporanee e viene impreziosito da intermezzi vocali a volte moto efficaci (per effetti e embientazioni). ‘Shrine’ dunque è un disco che vuole stimolare nell’ascoltatore il suo lato emotivo e più intimo, a volte risulterà molto pretenzioso, a volte farà centro.
L’intro di ‘Pyramid’ contiene echi orientali e pentatonici, fa un po’ insospettire l’ascoltatore se riesce a durare circa 3 minuti e 22 secondi (su un totale di 18:19 dell’intero brano). I ritmi iniziali sono lenti, soffocati e probabilmente vorrebbero richiamare all’ordine tutti i fan di quella piccola gemma prog che è ‘A dream in static’ degli Earthside.
Tutto è dilatato, nessuna eccezione anche per le linee vocali, sacrificate come spesso accade quando il materiale strumentale presenta un fitto sottobosco di idee soprattutto ritmiche.
C’è un richiamo al Tool-sound in questi mix vocali di Manuel and Enrico, effetto decisamente voluto in questo lavoro, registrato, mixato e masterizzato presso il Dunastudio di Russi da Andrea Scardovi e Marco Maragoni. Effetto che però scomparirà nei successivi brani.
Le riverberazioni degli strumenti, dicevamo, sono in linea con la tendenza del momento e questo può rappresentare un male, ma anche un bene.
Non un lavoro immediato, non è stato concepito per questo e lo si capisce da subito e non per mancanza di continuità, anzi. L’assenza di continuità è senza dubbio un’arma su cui i nostri decisamente puntano.
‘Laborintus’ è la più breve tra le song proposte (si fa per dire), con i suoi 15 minuti. È un tentativo di viaggio, una sorta di trasporto musicale dove le voci effettate sono il vero “motore” che spinge questo mezzo, un senso di alienazione azzeccato ma che fa passare un po’ il lavoro strumentale in secondo piano. Anche perché molti dei riff e dei passaggi, seppur articolati, risultano pesanti e portati all’eccesso. Non tutto è perduto ovviamente, al minuto 09:55 abbiamo delle belle aperture, fresche e ispirate, ma che si perdono successivamente nella tecnica.
‘Egg’ chiude il platter, superando abbondantemente i 20 minuti. Nei primi secondi vi notiamo un approccio più sperimentale, più spontaneo e meno allineato alla monotonia del genere di questi ultimi anni. La canzone scorre via “abbastanza” facilmente, purtroppo senza notevoli cambi di rotta, ai più risulterà una sorta di fiera del virtuosismo (e dunque dai facili consensi), ma per chi scrive il virtuosismo è coinvolgimento, attrazione e stupore. E con questo ‘Shrine’ siamo ben lontani da questa visione ormai utopica e romantica della musica.