Recensione: The Revenge Of Alice Cooper

Un passatempo, una celebrazione, un disco fatto per puro divertimento con gli amici di vecchia data.
Sa di rimpatriata e di vecchie radici il nuovo album di una delle poche leggende rimaste della nostra musica preferita.
Coscritto di Ozzy, Vincent Damon Furnier – più noto come Alice Cooper per le migliaia di fan in giro per il globo – è un artista che non ha bisogno minimamente di presentazioni.
Icona del rock, maestro assoluto, genio dello spettacolo. Padrino dello shock rock. Quando non eravamo nemmeno nati, lui c’era già, in qualche cantina di Detroit, a suonare il suo rock acido, ruvido e visionario.
Da allora, dal 1969, di anni ne sono passati un sacco, quasi un’era geologica, ed i dischi pubblicati sono diventati un fiume. Più di cinquanta tra studio, live e raccolte, con alcuni autentici capolavori e altrettanti passaggi a vuoto. Periodi di grande successo e cadute nell’oblio più profondo come accaduto sul finire degli anni settanta. Anni in cui Cooper era considerato un artista finito e senza più nulla da dire.
“The Revenge of Alice Cooper” è l’ennesimo tassello di una storia infinita che lo stesso Alice definisce come l’esordio di un nuova era, riconnessa all’antichità di album come School’s Out, Billion Dollar Babies, Love It To Death e Killer. Capitoli preistorici divenuti quasi leggendari, con cui Alice Cooper intende condividere non solo il feeling e le atmosfere. Ma pure il suono volutamente vintage, curato da una eminenza come Bob Ezrin. Soprattutto, ritrovarne la formazione, andando a recuperare i musicisti che all’epoca ne accompagnarono uno dei momenti più brillanti della carriera.
Ora mr. Furnier è un totem venerato ad ogni livello, ed il il risultato è, per così dire, quasi un optional. Nel senso che, buono o meno, un disco di Alice Cooper ha sempre un motivo per esistere e conserva un valore intrinseco definito dalla statura dell’artista che lo griffa.
Anche perché – tocca dirlo – “The Revenge of Alice Cooper” è un discreto album. Ma nulla di più.
Gli ingredienti del vetero-hardrock settantiano ci sono, così pure le atmosfere da horror b-movie anni cinquanta.
I brani sono ascoltabili, con qualche puntata verso l’alto. Ma nessuno che possa definirsi davvero superiore ad una buonissima routine a cui Alice Cooper ci ha abituati da un paio di cd a questa parte.
In particolare poi, la narrazione risulta un po’ prolissa e vittima di qualche lungaggine di troppo. Sedici brani (comprese le bonus di cui siamo in possesso), sono obiettivamente un numero eccessivo di canzoni tra le quali destreggiarsi e costruire un filo logico da memorizzare. E alla fine, alcune appaiono “riempitivi ripetitivi”, se ci è concesso un gioco di parole.
L’iniziale “Black Mamba”, brano condotto assieme all’estro del leggendario Robby Krieger dei Doors, è pura arte Cooperiana. “Kill the Flies” una stralunata follia visionaria con un marchio di fabbrica inequivocabile. Poi però arrivano “Up all Night” e “One Night Stand” e gli sbadigli scappano via senza nemmeno rendersene conto. “Blood on the Sun” si manifesta come un trip lisergico, mentre “Inter Galactic Vagabond Blues”, ottiene finalmente brio e adrenalina alla pari dell’eccellente rock n’roll eruttato da “What Happened to You”. Un brano realizzato recuperando alcune tracce incise da Glenn Buxton – chitarrista scomparso nel 1997 – in una reunion virtuale dal sapore malinconico ma avvincente.
Le cadenze di “Famous Faces” annoiano un pelo, mentre convincono molto di più i ritmi seventies di “Money Screams”.
In generale ad ogni modo, si percepisce con nitidezza la volontà di incidere un disco assolutamente “vintage”, fuori dal tempo e senza schemi. Antiquato e polveroso come un vecchio vinile dei Rolling Stones o degli Stooges, consegnandosi ad una nicchia limitata e molto lontana dai gusti dei tradizionali fruitori di hard rock.
Ad Alice Cooper ed ai suoi vecchi compagni ritrovati, Michael Bruce, Dennis Dunaway e Neal Smith non sembra interessare molto. L’intento era quello di omaggiare le origini, ritrovarsi assieme e provare a ricostruire la magia di un tempo remoto appartenuto alla loro giovinezza.
Obiettivo raggiunto con soddisfazione potremmo dire. Per loro.
Per tutti i fruitori di musica forse qualche gioia in meno, al netto di un buon album di rock dallo stile retrò che potrà piacere senza riserve a qualche reduce. O agli smodati amanti di suoni anni sessanta / settanta.
Gli altri forse aggiungeranno “The Revenge of Alice Cooper” alla loro collezione più per rispetto che mera convinzione.
E, supponiamo, negli anni futuri ritorneranno al suo ascolto piuttosto di rado.
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