Recensione: The Devil To Pay In The Backlands

Debuttano su Frontiers i Jack The Joker, band progressive/djent metal, proveniente dal nord-est del Brasile, Fortaleza per la precisione. La band è composta da Raphael Joer (voce), Gustavo Pinheiro (basso), Vicente Ferreira (batteria), Felipe Faco e Lucas Colares (chitarre) e ha già due studio album all’attivo: In the rabbit hole (2014) e Mors volta (2016).
Quello che propone il quintetto è una miscela sonora che include metal, djent (in stile Leprous) e influenze brasiliane, come elementi di maracatu, forró e baião.
I testi di The Devil To Pay In The Backlands, inoltre, prendono ispirazione da Grande Sertão (1956), classico dello scrittore brasiliano João Guimarães Rosa, nonché romanzo fiume che esplora l’eterno scontro Uomo-Natura (per alcuni sarebbe l’equivalente brasiliano niente meno che dell’Ulisse di Joyce).
Prodotto da Adair Daufembach (Angra) e con una copertina accattivante che sembra presa dall’universo di Dune, l’album – che si compone di dieci canzoni dal minutaggio canonico e un ultimo pezzo da 13 minuti – inizia con la potente “Devir”. Una dichiarazione d’intenti nuda e cruda: la band suona affilata, cervellotica e cattiva al punto giusto. A colpire è la base ritmica, specie le linee di basso di Gustavo Pinheiro che insieme alle chitarre droppate crea un incedere sonoro soffocante e spezzettato tipico del metal moderno. C’è spazio, tuttavia, anche per un assolo di chitarra elettrica che non dimentica l’importanza della melodia.
Se questo tipo di sound fa al caso vostro, il prosieguo dell’album sarà per voi una bella scoperta, anche se la durata complessiva del platter non è per niente contenuta… Tornando alle caratteristiche della band, focalizziamoci un attimo sulla voce di Raphael Joer: in “Between The Sky Lines” il cantante brasiliano copre un range notevole, ha un timbro potente e grintoso, ma a nostro avviso cerca d’imitare quello di Einar Solberg (Leprous), cosa ovviamente impossibile a farsi. Le sue linee vocali comunque s’inseriscono bene con il resto delle parti, tra cui segnaliamo quelle di tastiera e i blast beat di Vicente Ferreira.
All’avvio di “Denied” aleggia lo spettro degli Angra, ci sono inserti acustici e a seguire compaiono percussioni folk, ma anche parti in growl tra le più pesanti del disco. Alternare atmosfere così disparate in un brano non è cosa semplice, i Jack The Joker dimostrano di riuscirci alla grande e gliene diamo atto. Primo scoglio in tracklist è la successiva “XV”, nove minuti di tecnica e potenza pura. Tutto inizia con un esercizio ritmico in stile Meshuggah, il resto è un continuo saliscendi emotivo. Qui la band sembra non preoccuparsi del minutaggio dilatato, anzi emula certi Dream Theater che furono. “Neblina” sembra essere una ballad e invece si rivela un altro brano potente e con Raphael Joer che alterna linee vocali pulite ad altre più graffianti. E che dire dei primi secondi di “Sun”? Sferzate djent da manuale… a tratti emergono sprazzi di genialità come nel finale in crescendo e con note di fisarmonica. Da segnalare anche certe venature funky in “You (Where I Belong)”, con alcune parti di basso in slap e voce femminile come aggiunta nel finale.
Quello che colpisce dell’album è il livello di potenza che trasuda, senza mostrare cedimenti. Siamo oltre il giro di boa e i ritmi restano indiavolati con “Thousand Witnesses”, a tratti furiosa e indomita (non mancano i blast beat), ma anche pezzo eclettico che ingloba una sezione strumentale a metà tra Dream Theater e Between the buried and me. Delle nacchere introducono la seguente “Cabaret”, mentre in penultima posizione stupiscono i virtuosismi di “Saudade”, pseudo-ballad che a nostro avviso avrebbe potuto spiccare di più in forma unplugged.
E siamo, infine, arrivati ai tredici minuti conclusivi di “Hope”, epilogo che corona l’ambizioso concept della band brasiliana. Non aspettatevi particolari colpi di scena, il combo sudamericano ripropone il suo sound potente e chiude senza sbavature.
Veniamo alle conclusioni. L’ascolto di The Devil To Pay In The Backlands a tratti risulta impegnativo, ma anche esaltante in certi momenti. I Jack The Joker hanno un ottimo bagaglio tecnico e un buon potenziale, ma suonano a tratti troppo vicini ai già menzionati Leprous. Le ritmiche djent alla lunga risultano ripetitive: è comprensibile l’intento di stare al passo con i tempi, ma bisogna trovare una via per esprimere la propria originalità, lavorando di più sulle dinamiche e sulle linee vocali.
Siamo comunque sia su livelli più che discreti, ma un filo sotto quanto realizzato dai connazionali Maestrick e il loro Espresso della Vita. Limando di più il minutaggio complessivo e puntando su un maggiore eclettismo potrebbero guadagnare ancor più visibilità.